La
pandemia-covid 19 oramai non è più
solo una emergenza sanitaria, ma un serio problema economico che si sta
manifestando come recessione; in Italia questa nuova crisi si è inserita
in una lunga fase di debole crescita
economica, che perdura dal 2008 e
che proprio alla fine del 2019 aveva già registrato un nuovo peggioramento frutto
di una conclamata frenata dell’economia più o meno diffusa in tutta Europa.
In
questo contesto, il mercato del lavoro italiano aveva mostrato nel 2018-19 una dinamica
lievemente positiva, raggiungendo nel secondo trimestre 2019 i 23,4 milioni di occupati (+255 mila unità rispetto al 2018), con
un tasso di occupazione al 59,2% e
un tasso di disoccupazione al 9,8%, per
poi iniziare un progressivo calo che ha accentuato le differenze con gli altri
Paesi Europei: “Gli elevati divari con
l’Ue sono aumentati anche nella recente fase di ripresa: il gap nel tasso di
occupazione è aumentato da 8,9 punti
nel primo trimestre 2014 fino a 10,2
punti nel terzo 2019 e quello del tasso di disoccupazione da 2,1 punti a 3,5 punti nel medesimo confronto temporale, con differenze più accentuate per le donne e
per i giovani” (Istat, Il mercato del lavoro 2019, pag. 9).
A
marzo 2020 l’Istat rilevava ancora una sostanziale tenuta dell’occupazione (grazie all’esteso ricorso alla cassa
integrazione) anche se in lieve calo, una riduzione delle persone in cerca di
lavoro e un aumento degli inattivi (Istat, Occupati e disoccupati, 3/2020).
Le
previsioni per il 2020/21 sono alquanto negative, essendo ipotizzabile un balzo
enorme del ricorso alla CIG, un congelamento nel flusso degli avviamenti al
lavoro e poi un progressivo aumento
della disoccupazione, poiché dopo il blocco emergenziale alcune unità
produttive potrebbero non riaprire e altre chiudere definitivamente
In
proposito, Goldman Sachs prevede un
negativo impatto della pandemia sul
mercato del lavoro con un tasso di disoccupazione che nell’area-euro a metà anno
dovrebbe risalire all’11,5%, mentre per l’Italia si attesterebbe al
17% (Pubblicate il 14/4/2020).
Nel
DEF 2020 (appena presentato in Parlamento) il Governo è più ottimista: con una previsione
di minore occupazione del -2,1% (poi
+1% nel 2021), un monte ore lavorato
discendente del -6,3% (poi +3,7% nel 2021) e con un tasso di
disoccupazione che dovrebbe salire dal 10%
del 2019 all’11,6% del 2020 (poi all’11% nel 2021); conseguentemente
diminuiranno i redditi da lavoro dipendente (-5,7% nel 2020 e poi +4,6%
nel 2021) e caleranno i consumi privati (-7,2%
per il 2020, poi +4% nel 2021) per
effetto sia delle misure di contenimento sociale che per una riduzione del
reddito disponibile; questi dati fanno da corollario al crollo del PIL nel 2020
almeno dell’8% (DEF 2020, pag.
57).
La
Commissione Europea prevede un forte impatto negativo sull’andamento occupazionale
italiano: dal +0,3% del 2019 al -7,5% del 2020 (-7,8% è tra i dati peggiori in Europa), poiché una parte
dell’occupazione italiana è svolta in aziende con margini economici ridottissimi
e/o è un lavoro poco produttivo e poco retribuito, con orari di lavoro ridotti e con contratti a tempo determinato; in
sostanza questo esteso lavoro precario sarà il primo a pagare l’impatto della pandemia (European
Economic Forecast del 6/5/2020, pag. 95).
Si
tratta di previsioni diverse, ma tutte comunque assai negative; inoltre,
occorre considerare che la profondità della crisi economica del 2020 dipenderà
non solo dalla durata dell’attuale periodo di blocco di molte attività produttive, ma anche da quanto rapidamente si tornerà alla normalità;
senza considerare che una eventuale recrudescenza
dell’epidemia nei prossimi mesi autunnali causerebbe un’ulteriore aggravamento
della crisi, ritardando la fase di ripresa e aggravando ulteriormente lo
scenario economico.
I
livelli di attività economica italiana sono molto deboli e si uniscono a un basso tenore di lavoro dovuto a un
elevato tasso di inattività (che nasconde un pezzo rilevante della
disoccupazione femminile, giovanile e meridionale) e da un elevato tasso di
disoccupazione.
Questi elevati
tassi di disoccupazione si riverberano anche sul piano della spesa sociale: i
sussidi di disoccupazione ammontano nel 2019 a 13.465 €/milioni, pari allo 0,8%
del PIL con crescita prevista per il 2020 al 1,2% del PIL (DEF 2020, pag.
68); per il 2020 è previsto: “Il
rifinanziamento degli ammortizzatori sociali per contrastare gli effetti
economico sociali della crisi si riflette in una crescita dei sussidi di
disoccupazione del 45,5 per cento”
(DEF 2020,
pag 70).
Insomma,
la pandemia è arrivata in un momento
assai delicato per l’Italia in cui già si manifestavano sia le problematiche
della bassa crescita economica, che
quelle dell’aumento dei differenziali con
gli altri Paesi Europei; solo qualche esempio in proposito:
-
il
tasso di disoccupazione italiano dal
secondo trimestre 2012 in poi è sempre stato superiore a quello della media Ue,
giungendo a un differenziale di 3,5
punti nel 2019;
-
la
popolazione inattiva (che vuole
lavorare anche se non ha svolto azioni di ricerca nell’ultimo mese o non è
immediatamente disponibile a iniziare un lavoro) in Italia è molto più elevata rispetto
a quello della media Ue, a causa dei bassi tassi di attività in particolare tra
le donne, tra i giovani e gli anziani, specie nel Sud;
-
la
bassa intensità lavorativa per occupato,
nel periodo 2015-2018 la riduzione della quantità di lavoro a parità di
occupati dipende dal ricorso alla CIG, dalla diffusione di rapporti di lavoro a
orari ridotti e con carattere discontinuo, dal lavoro a tempo determinato e di
breve durata; negli ultimi anni è fortemente aumentato il numero di quanti
lavorano a tempo parziale;
-
la bassa produttività (intesa come valore aggiunto per ora lavorata) è
cresciuta tra il 1995 e il 2017 solo dello 0,4%
(contro una media Ue del 1,6%), nel
2018-19 diminuisce ulteriormente in Italia. Tra le molte cause di questa minore
produttività possiamo indicare: i bassi livelli di capitale umano presenti nel
mercato del lavoro (ad es. bassa quota di laureati); un clima di difficile
sviluppo per l’imprenditorialità (ritardi Amministrazione Pubblica e giustizia
civile, ecc.); i bassi investimenti in ricerca e sviluppo; il sottoutilizzo del
mercato dei capitali; i pochi investimenti su settori con una alta crescita e
sviluppo;
-
l’invecchiamento della popolazione (più accentuato
rispetto al resto dell’Europa), comporta una riduzione progressiva delle
persone in età lavorativa e un aumento dei pensionati, con conseguente aumento
del tasso di dipendenza e un aggravamento del carico pensionistico sul bilancio
statale.
Questo
commento del Presidente CNEL Tiziano Treu ben sintetizza le problematiche strutturali del mercato
del lavoro italiano prima della pandemia:
“L’occupazione
femminile è ancora molto al di sotto di quella maschile e lontana dalle
medie europee. La disoccupazione
giovanile resta tre volte più alta di quella degli adulti. Il part time involontario denuncia il
fatto che molte capacità umane sono forzatamente inutilizzate e colpisce ancora
in prevalenza donne e giovani. Così pure il lavoro a termine, emblema della precarietà, rimane alto, specie per le prime assunzioni riguarda in
particolare giovani e donne. Le diseguaglianze territoriali sono cresciute e si
riflettono anche sulle condizioni dei lavoratori. Questa situazione del mercato del lavoro non è contingente, ha radici
strutturali, perché riflette la debolezza di un’economia che è stagnante da
anni. Un’Italia ferma da oltre
vent’anni su un sentiero di crescita che oscilla intorno allo 0,2% annuo e su
un tasso di partecipazione al lavoro sempre inferiore a quella dei principali
Paesi sviluppati non può competere nel mondo di oggi e non può dare prospettive
alle generazioni future” (CNEL del 11/12/2019).
In conclusione.
Lo
scenario recessivo
post-pandemia in Italia è assai preoccupante specie per i problemi
legati alla occupazione/disoccupazione/inattività; in generale il lavoro italiano
“non gode
di buona salute” (né per quantità né per qualità); l’attuale situazione del
mercato del lavoro ha, però, radici
strutturali perché riflette la debolezza di un’economia che è stagnante da troppi anni.
Se
i problemi strutturali non verranno
risolti con opportune riforme, perdurando con una scarsa o assente crescita
economica, le turbolenze della pandemia rischiano
di assestare un colpo assai pesante all’economia italiana.
Da
anni l’Italia cresce meno degli altri Paesi europei, non ha neppure recuperato
(unico tra tutti) i livelli di benessere del 2007 e conseguentemente i
differenziali sono destinati ad accrescersi.
L’obiettivo
principale di un Governo dovrebbe essere quello di favorire la “crescita”
(cioè aiutare le imprese e tutti coloro che partecipano alla produzione di beni
e servizi) con riforme e politiche tese a innalzare la qualità della domanda di
lavoro delle imprese, promuovendo investimenti che aumentino il livello
tecnologico delle produzioni e dei servizi, mentre da troppi anni si fa l’esatto
contrario con la distribuzione di bonus e sussidi di stampo assistenziale con
lo scopo di aumentare il consenso elettorale, creando (come ha indicato il sociologo
Luca Ricolfi) una: “società assistita di massa,
dove lo Stato gestisce quel che non funziona, e un manipolo di produttori –
grazie all’export – ci assicura quel che siamo costretti a comprare dall’estero”
(Linkiesta del 4/5/2020), ma con
conseguente progressivo allargamento della precarietà
e della povertà.
Euro Mazzi
PS: questo post fa parte di un ampio studio
sulle problematiche relative alla crisi economica e finanziaria che da anni
interessa l’Italia nel contesto europeo.
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