La
pandemia Covid-19 è stata paragonata
ad una “guerra” (ricoverati e morti, dispositivi personali di
protezione, lunghe file ai negozi, l’isolamento e il “rimante a casa”, la crescente preoccupazione per l’immediato
futuro, ecc.), ma fortunatamente si tratta di un eccesso di drammatizzazione, poiché
le differenze sono evidenti: mancano le diffuse distruzioni, è assente “il mercato nero” di prodotti alimentari
e di farmaci anzi il loro consumo non si è fermato, gli impianti “strategici”
(luce, acqua, gas, ecc.) producono ed erogano, le infrastrutture funzionano.
Le
conseguenze economiche di questa pandemia
possono, però, essere confrontate con quelle di una “crisi post-bellica” soprattutto
per la identica necessità di un massiccio
intervento pubblico in grado avviare una graduale ripresa economica.Questa
è la tesi di M. Draghi, il quale ha sostenuto la necessità di fare rapidamente
leva sulla spesa pubblica (aumentando anche il debito pubblico) per far fronte
alla pandemia, poiché l’alternativa,
ben più pericolosa, sarebbe la distruzione
della capacità produttiva delle imprese e dei posti di lavoro; il sostegno
alle imprese è prioritario anche per mantenere l’occupazione e, quindi, il
reddito indispensabile per accompagnare la ripresa dei consumi e sostenere così
la produzione: “La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare
al meglio il suo bilancio (…) Davanti
a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra (…) La velocità del tracollo dei bilanci delle
aziende private – provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e
inevitabile – dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla
mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per
quella che è innegabilmente una causa comune” (M. Draghi, 26/3/2020).
L’intervento
di Draghi ha aperto un esteso dibattito su quali
strumenti impiegare (ad es. per garantire la disponibilità di liquidità) e
sulle “quantità di risorse” da coinvolgere (ad es. 200/400/1.000
€/miliardi).
Per
C. Cottarelli sono essenziali la liquidità
e le garanzie statali: “Il ruolo del credito bancario è perciò
fondamentale. Le banche, in questa situazione, erogheranno però sufficiente
credito solo se si sentono protette dal rischio
di un’impennata dei crediti deteriorati. Ma se le banche non erogano credito, la recessione diventa ancora più
pesante e la probabilità di un aumento
dei crediti deteriorati aumenta ulteriormente. Si entra in un circolo
vizioso. Come uscirne? Il ruolo delle garanzie
statali è, in proposito, cruciale (…) Occorre evitare assolutamente che una mancanza di liquidità porti all’impossibilità delle imprese di
tornare a operare una volta che l’emergenza sanitaria sia stata superata. E se
le imprese non riaprono, non c’è speranza per la nostra economia (…) Appena
finita l’emergenza medica, occorre che le imprese riaprano subito e per questo
avranno bisogno di una adeguata liquidità. Le
garanzie dello Stato sono quindi essenziali” (Stampa del 3/4/2020).
In
questo senso, pur con ritardi, indecisioni, carenze e incertezze si sono mossi
sia il Governo italiano (con i vari decreti “Cura Italia”), sia la BCE (con fornitura di liquidità a tassi
negativi alle banche, il “quantitative
easing” fino a 220 miliardi di titoli di Stato italiani entro la fine
dell’anno) che l’UE (sospensione delle regole europee sui conti pubblici, disponibilità
dei “residui” dei Fondi Europei, piano straordinario).
Insomma,
il dibattito (e i primi provvedimenti economici) è incentrato sull’attivazione della
spesa pubblica in favore di aiuti
economici e di un flusso di
liquidità per consentire alle famiglie di “spendere” e alle
imprese di diluire nel medio-lungo termine l’impatto della crisi, ma non è stato
ancora messo a fuoco la problematica di come evitare il conseguente appesantimento eccessivo del debito
pubblico, poiché l’Italia ha difficoltà a fare nuovo debito perché ne ha
già fatto troppo in passato; soprattutto mancano indicazione su come evitare di
ripetere gli errori commessi
precedentemente nell’utilizzare la spesa pubblica in funzione più del consenso elettorale che dello sviluppo economico.
In
tal senso, vanno le osservazioni dell’economista L. Bini Smaghi che ritiene
inevitabile in questo momento un aumento del debito pubblico, a patto che poi
si facciano le necessarie riforme
per superare il problema di una insufficiente
crescita economica, evitando la ricerca del consenso elettorale: “Negli
anni recenti l’unica linea di politica economica è stata quella di chiedere maggiore flessibilità all’Europa per
fare più spesa corrente senza
rendersi conto che ciò non aiutava la
crescita, mentre il debito continuava ad aumentare. Sono state fatte ben poche riforme per rendere il Paese
più competitivo. Questa è la vera fragilità, soprattutto di natura culturale
(…) È l’idea – condivisa da gran parte dei partiti – che la crescita si fa con più debito, invece che con le riforme di quei
meccanismi strutturali che impediscono alle imprese di investire e creare posti
di lavoro” (La Repubblica, 6/4/2020).
L’intervento
statale (e quello europeo) si preannuncia di notevole entità e, pertanto, non è pensabile presupporre un
immediato rientro di questo nuovo debito, né sarà possibile ricorrere ad insensate misure di austerità (tagli
indiscriminati) e/o alla formazione di consistenti
avanzi primari trainati dall’eventuale aumento
di tasse (ad es. con una patrimoniale) perché questi strumenti avrebbero
subito un effetto recessivo che
contrasterebbero l’effetto espansivo dei
vari interventi post-pandemia;
quindi occorre trovare altre soluzioni per impedire che questa nuova spesa pubblica post-pandemia provochi a
sua volta danni irreparabili in un prossimo futuro.
Il
problema italiano non risiede nell’entità
dell’intervento, ma nelle modalità di
utilizzo della spesa pubblica; va in tal senso l’opinione dell’economista D.
Lacalle che individua nella riproposizione degli stessi “vecchi errori” (cioè l’aumento
massiccio delle pretese e dei sussidi) i problemi da superare: “Le
massicce sovvenzioni e la spesa pubblica non sono strumenti per la crescita, ma
la ricetta per la stagnazione e in definitiva impongono degli adeguamenti
più grandi e più dolorosi a lungo termine (…) Per questo motivo, le spese del
governo hanno continuato a espandersi ben al di sopra delle proprie entrate (… penalizzando) i settori ad alta produttività con
l’aumento delle imposte, il gettito è in breve diminuito, mentre la curva delle
spese non ha subito contrazioni. L’Italia, come tanti paesi periferici, ha
creato un massiccio effetto di “spiazzamento”
del settore pubblico nei confronti del privato. Non è un caso che la maggior
parte dei cittadini in Italia, come in Spagna o in Portogallo, preferisca
trovare un impiego come dipendente pubblico, anziché intraprendere in proprio”
(Liberty corner del 19/10/2018).
Del resto, il livello della spesa
pubblica primaria procapite in Italia è in linea con il valore medio dei Paesi UE;
in seguito alla crisi 2008-2013 vi è stata una stretta significativa sul fronte
della spesa pubblica al netto degli interessi, concentrandosi solo sui tagli più
facili ad alcune voci di costo (ad es. la spesa
del personale), sia pure con evidenti asimmetrie
tra i diversi comparti di spesa, ma si è manifestata soprattutto nella riduzione degli investimenti pubblici.
Dunque,
in Italia da parecchi anni non è così vera la teoria “Più deficit più crescita, e viceversa”, poiché una parte della
spesa pubblica è improduttiva (con spreco di risorse), è allocata male (dispersione e
corruzione) ed è gestita da un apparato amministrativo spesso inefficiente, senza considerare che una sua parte
consistente è rappresentata dagli interessi
sul debito pubblico.
In
tutti questi anni sono, da una parte, mancati i processi di riforma seri della spesa pubblica, la quale vale circa
la metà del PIL, mentre dalla parte delle entrate la forte pressione fiscale (che supera costantemente il 40% del PIL)
risponde alla necessità di assicurare la tenuta dei conti più che un loro risanamento
e non è mai stato affrontato il nodo dell’evasione/erosione/elusione
fiscale.
Senza
una spesa efficiente, con tasse in aumento, con scarsi investimenti, senza riforme reali la crescita italiana post-pandemia continuerà ad essere insufficiente e, comunque, rimarrà inferiore
a quella del resto dei Paesi europei, comportando un crescente divario che alimenterà
la sua scarsa competitività.
Insomma,
se l’Italia non ridisegna/riforma la
“macchina pubblica” e le modalità di spesa
rischia di vanificare anche questo attuale intervento che si preannuncia di notevole
entità, trovandosi fra pochi anni definitivamente in una depressione senza
precedenti e con conseguenze negative al momento imprevedibili.
In conclusione. Aumentare la
spesa pubblica a debito serve per ripartire immediatamente; un intervento di
notevole entità sarà utile per superare questa fase recessiva; una volta
superata questa prima fase emergenziale saranno determinanti le buone riforme, gli investimenti pubblici (in infrastrutture, sanità, istruzione,
difesa dell’ambiente e governo del territorio, ecc.) e le politiche industriali di lungo periodo con l’obiettivo di una piena
e buona occupazione; ma alla lunga bisognerà prepararsi ad affrontare i
molti e gravi problemi di sostenibilità del debito pubblico, facendosi trovare
con i conti in ordine.
È
una situazione difficile che presenta problematiche
complesse; oggi più che mai è necessario
un diffuso e serio dibattito/concorso delle
idee, ma soprattutto servono politici con competenze ed esperienze adeguate, mentre non abbiamo bisogno di “venditori
di fumo” alla ricerca di un immediato consenso elettorale … auguri.
Euro
Mazzi
PS: questo post
fa parte di un ampio studio sulle problematiche relative alla crisi economica e
finanziaria che da anni interessa l’Italia nel contesto europeo.
Post
sulle conseguenze della pandemia:
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CORONAVIRUS, CRISI DEL TURISMO E … LA PALMARIA: QUI- CORONAVIRUS E I “TAGLI” ALLA SANITÀ PUBBLICA: QUI
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