sabato 11 aprile 2020

CORONAVIRUS E CRISI ECONOMICA (seconda parte)

La pandemia Covid-19 è stata paragonata ad una “guerra” (ricoverati e morti, dispositivi personali di protezione, lunghe file ai negozi, l’isolamento e il “rimante a casa”, la crescente preoccupazione per l’immediato futuro, ecc.), ma fortunatamente si tratta di un eccesso di drammatizzazione, poiché le differenze sono evidenti: mancano le diffuse distruzioni, è assente “il mercato nero” di prodotti alimentari e di farmaci anzi il loro consumo non si è fermato, gli impianti “strategici” (luce, acqua, gas, ecc.) producono ed erogano, le infrastrutture funzionano.
Le conseguenze economiche di questa pandemia possono, però, essere confrontate con quelle di una “crisi post-bellica” soprattutto per la identica necessità di un massiccio intervento pubblico in grado avviare una graduale ripresa economica.Questa è la tesi di M. Draghi, il quale ha sostenuto la necessità di fare rapidamente leva sulla spesa pubblica (aumentando anche il debito pubblico) per far fronte alla pandemia, poiché l’alternativa, ben più pericolosa, sarebbe la distruzione della capacità produttiva delle imprese e dei posti di lavoro; il sostegno alle imprese è prioritario anche per mantenere l’occupazione e, quindi, il reddito indispensabile per accompagnare la ripresa dei consumi e sostenere così la produzione: “La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio (…) Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra (…) La velocità del tracollo dei bilanci delle aziende private – provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e inevitabile – dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per quella che è innegabilmente una causa comune” (M. Draghi, 26/3/2020).
L’intervento di Draghi ha aperto un esteso dibattito su quali strumenti impiegare (ad es. per garantire la disponibilità di liquidità) e sulle “quantità di risorse” da coinvolgere (ad es. 200/400/1.000 €/miliardi).
Per C. Cottarelli sono essenziali la liquidità e le garanzie statali: “Il ruolo del credito bancario è perciò fondamentale. Le banche, in questa situazione, erogheranno però sufficiente credito solo se si sentono protette dal rischio di un’impennata dei crediti deteriorati. Ma se le banche non erogano credito, la recessione diventa ancora più pesante e la probabilità di un aumento dei crediti deteriorati aumenta ulteriormente. Si entra in un circolo vizioso. Come uscirne? Il ruolo delle garanzie statali è, in proposito, cruciale (…) Occorre evitare assolutamente che una mancanza di liquidità porti all’impossibilità delle imprese di tornare a operare una volta che l’emergenza sanitaria sia stata superata. E se le imprese non riaprono, non c’è speranza per la nostra economia (…) Appena finita l’emergenza medica, occorre che le imprese riaprano subito e per questo avranno bisogno di una adeguata liquidità. Le garanzie dello Stato sono quindi essenziali” (Stampa del 3/4/2020).
In questo senso, pur con ritardi, indecisioni, carenze e incertezze si sono mossi sia il Governo italiano (con i vari decreti “Cura Italia”), sia la BCE (con fornitura di liquidità a tassi negativi alle banche, il “quantitative easing” fino a 220 miliardi di titoli di Stato italiani entro la fine dell’anno) che l’UE (sospensione delle regole europee sui conti pubblici, disponibilità dei “residui” dei Fondi Europei, piano straordinario).
Insomma, il dibattito (e i primi provvedimenti economici) è incentrato sull’attivazione della spesa pubblica in favore di aiuti economici e di un flusso di liquidità per consentire alle famiglie di “spendere” e alle imprese di diluire nel medio-lungo termine l’impatto della crisi, ma non è stato ancora messo a fuoco la problematica di come evitare il conseguente appesantimento eccessivo del debito pubblico, poiché l’Italia ha difficoltà a fare nuovo debito perché ne ha già fatto troppo in passato; soprattutto mancano indicazione su come evitare di ripetere gli errori commessi precedentemente nell’utilizzare la spesa pubblica in funzione più del consenso elettorale che dello sviluppo economico.
In tal senso, vanno le osservazioni dell’economista L. Bini Smaghi che ritiene inevitabile in questo momento un aumento del debito pubblico, a patto che poi si facciano le necessarie riforme per superare il problema di una insufficiente crescita economica, evitando la ricerca del consenso elettorale: “Negli anni recenti l’unica linea di politica economica è stata quella di chiedere maggiore flessibilità all’Europa per fare più spesa corrente senza rendersi conto che ciò non aiutava la crescita, mentre il debito continuava ad aumentare. Sono state fatte ben poche riforme per rendere il Paese più competitivo. Questa è la vera fragilità, soprattutto di natura culturale (…) È l’idea – condivisa da gran parte dei partiti – che la crescita si fa con più debito, invece che con le riforme di quei meccanismi strutturali che impediscono alle imprese di investire e creare posti di lavoro” (La Repubblica, 6/4/2020).
L’intervento statale (e quello europeo) si preannuncia di notevole entità e, pertanto, non è pensabile presupporre un immediato rientro di questo nuovo debito, né sarà possibile ricorrere ad insensate misure di austerità (tagli indiscriminati) e/o alla formazione di consistenti avanzi primari trainati dall’eventuale aumento di tasse (ad es. con una patrimoniale) perché questi strumenti avrebbero subito un effetto recessivo che contrasterebbero l’effetto espansivo dei vari interventi post-pandemia; quindi occorre trovare altre soluzioni per impedire che questa nuova spesa pubblica post-pandemia provochi a sua volta danni irreparabili in un prossimo futuro.
Il problema italiano non risiede nell’entità dell’intervento, ma nelle modalità di utilizzo della spesa pubblica; va in tal senso l’opinione dell’economista D. Lacalle che individua nella riproposizione degli stessi “vecchi errori” (cioè l’aumento massiccio delle pretese e dei sussidi) i problemi da superare:Le massicce sovvenzioni e la spesa pubblica non sono strumenti per la crescita, ma la ricetta per la stagnazione e in definitiva impongono degli adeguamenti più grandi e più dolorosi a lungo termine (…) Per questo motivo, le spese del governo hanno continuato a espandersi ben al di sopra delle proprie entrate (… penalizzando) i settori ad alta produttività con l’aumento delle imposte, il gettito è in breve diminuito, mentre la curva delle spese non ha subito contrazioni. L’Italia, come tanti paesi periferici, ha creato un massiccio effetto di “spiazzamento” del settore pubblico nei confronti del privato. Non è un caso che la maggior parte dei cittadini in Italia, come in Spagna o in Portogallo, preferisca trovare un impiego come dipendente pubblico, anziché intraprendere in proprio” (Liberty corner del 19/10/2018). 
Del resto, il livello della spesa pubblica primaria procapite in Italia è in linea con il valore medio dei Paesi UE; in seguito alla crisi 2008-2013 vi è stata una stretta significativa sul fronte della spesa pubblica al netto degli interessi, concentrandosi solo sui tagli più facili ad alcune voci di costo (ad es. la spesa del personale), sia pure con evidenti asimmetrie tra i diversi comparti di spesa, ma si è manifestata  soprattutto nella riduzione degli investimenti pubblici.
Dunque, in Italia da parecchi anni non è così vera la teoria “Più deficit più crescita, e viceversa”, poiché una parte della spesa pubblica è improduttiva (con spreco di risorse), è allocata male (dispersione e corruzione) ed è gestita da un apparato amministrativo spesso inefficiente, senza considerare che una sua parte consistente è rappresentata dagli interessi sul debito pubblico.
In tutti questi anni sono, da una parte, mancati i processi di riforma seri della spesa pubblica, la quale vale circa la metà del PIL, mentre dalla parte delle entrate la forte pressione fiscale (che supera costantemente il 40% del PIL) risponde alla necessità di assicurare la tenuta dei conti più che un loro risanamento e non è mai stato affrontato il nodo dell’evasione/erosione/elusione fiscale.
Senza una spesa efficiente, con tasse in aumento, con scarsi investimenti, senza riforme reali la crescita italiana post-pandemia continuerà ad essere insufficiente e, comunque, rimarrà inferiore a quella del resto dei Paesi europei, comportando un crescente divario che alimenterà la sua scarsa competitività.
Insomma, se l’Italia non ridisegna/riforma la “macchina pubblica” e le modalità di spesa rischia di vanificare anche questo attuale intervento che si preannuncia di notevole entità, trovandosi fra pochi anni definitivamente in una depressione senza precedenti e con conseguenze negative al momento imprevedibili.
In conclusione. Aumentare la spesa pubblica a debito serve per ripartire immediatamente; un intervento di notevole entità sarà utile per superare questa fase recessiva; una volta superata questa prima fase emergenziale saranno determinanti le buone riforme, gli investimenti pubblici (in infrastrutture, sanità, istruzione, difesa dell’ambiente e governo del territorio, ecc.) e le politiche industriali di lungo periodo con l’obiettivo di una piena e buona occupazione; ma alla lunga bisognerà prepararsi ad affrontare i molti e gravi problemi di sostenibilità del debito pubblico, facendosi trovare con i conti in ordine.
È una situazione difficile che presenta problematiche complesse; oggi più che mai è necessario un diffuso e serio dibattito/concorso delle idee, ma soprattutto servono politici con competenze ed esperienze adeguate, mentre non abbiamo bisogno di “venditori di fumo” alla ricerca di un immediato consenso elettorale … auguri.

Euro Mazzi

 
PS: questo post fa parte di un ampio studio sulle problematiche relative alla crisi economica e finanziaria che da anni interessa l’Italia nel contesto europeo.

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