La
pandemia Covid 19 ormai non è più
solo una emergenza sanitaria, ma l’inizio di una vera e propria crisi/recessione
economica, poiché la necessità di far fronte all’emergenza avrà un
costo elevato, a cui si aggiungeranno le spese per gli interventi necessari
alla ripresa economica dopo il blocco di tutte le attività non strettamente
necessarie (ad esempio: la filiera del turismo, i servizi di ristorazione, le
attività ricreative, i diversi settori dell’industria, ecc.); le imprese avranno
difficoltà a trovare liquidità e a reperire credito bancario; molti potrebbero
rischiare di perdere il proprio lavoro e/o diminuire il proprio reddito; la
ridotta capacità produttiva e la lentezza della ripresa incideranno negativamente anche sulle entrate fiscali, indebolendo ulteriormente le finanze pubbliche.
Tutti i Paesi sono/saranno più o meno coinvolti in questa crisi/recessione, ma quelli più fragili, come l’Italia per la vulnerabilità dei suoi conti pubblici, lo saranno ancora di più in particolare a causa dell’inevitabile aumento del deficit e del debito pubblico.
Tutti i Paesi sono/saranno più o meno coinvolti in questa crisi/recessione, ma quelli più fragili, come l’Italia per la vulnerabilità dei suoi conti pubblici, lo saranno ancora di più in particolare a causa dell’inevitabile aumento del deficit e del debito pubblico.
Fino
ad oggi il governo italiano per affrontare l’emergenza sanitaria ha richiesto
(e ottenuto) una maggiore flessibilità sui conti da parte dell’Unione Europea
quale presupposto per varare i primi provvedimenti (“Cura Italia”) di 25+30 €/miliardi a sostegno dell’economia, assunti con aumento del debito
pubblico; la Bce, a sua volta, ha reso disponibile una maggiore liquidità alle
banche e varato un programma di acquisto di titoli denominato PEPP
(Pandemic emergency purchase programme)
di almeno 750 €/miliardi con durata a
fine del 2020 per contrastare le negative ricadute della crisi/recessione sul futuro
dell’eurozona.
Questi
primi provvedimenti sembrano, però, non essere sufficienti, poiché già alcune
analisi delineano per l’Italia un preoccupante scenario economico post-covid: - per Prometeia la crisi durerà
alcuni anni con un calo nel 2020 del PIL del 6,5%, con un rapporto debito pubblico/PIL pari al 150% e un deficit/PIL previsto al 6,6% (La
Repubblica del 27/3/20); - Cerved calcola per un
blocco della produzione di 2 mesi una perdita per le aziende di circa 275 €/miliardi (Il
Messaggero del 17/3/20); - per Ref nel primo semestre
del 2020 il Pil potrebbe perdere l’8%
(La Repubblica del 20/3/20); - per Morgan
Stanley il 2020 si chiuderà con l’economia in contrazione del 5,8% e un rapporto debito pubblico/PIL
al 147,7%, nonché una deflazione con
un calo dello 0,4% dell’indice dei
prezzi e una disoccupazione al 10,4% (Il Giornale del 18/3/20).
Secondo
il docente C. Altomonte fino a dicembre (grazie proprio al programma di
acquisti di titoli pubblici della Bce) non succederà niente di grave, ma per il
2021: “ci troveremo con rapporti
debito/Pil in tutti i Paesi superiori del 20-30%
rispetto ad ora, come in una guerra. Questo ci porrà il problema di come gestire questo debito, posto che
in Europa ci sarà un accesso asimmetrico al mercato, dato che ci saranno Paesi
che dal 60-65% del debito/Pil
arriveranno all’85-90%, come la Germania, e altri, come
l'Italia, che dal 120% arriveranno
al 150-160% (…) Il sostanziale incremento del deficit del 2020
comporterà un aumento del disavanzo ciclico
in Italia che si andrà a sommare ai 50
miliardi di euro destinati ad azioni di sostegno fiscale da “terapia
d’urto” che da sole contribuiscono all’aumento del deficit di oltre il 2% del PIL” (Adncronos
del 26/3/20).
La
pandemia ha colpito in un momento
assai delicato, poiché l’Italia nel 2019 presentava già uno scenario di scarsa crescita e di alto debito pubblico: - al 31/1/2020 il
debito pubblico era risalito a quota 2.443
€/miliardi rispetto ai circa 2.409,2
€/miliardi del 31/12/2019 (in calo rispetto al massimo storico del luglio
2019 di 2.466 €/miliardi); - nell’ultimo
trimestre 2019 la crescita del PIL è stata negativa -0,3% e la variazione del PIL per il 2019 era di circa +0,2%; - la produzione industriale a
dicembre 2019 era del -2,7% rispetto
al mese precedente e del -4,3%
rispetto al 2018.
In
sostanza il debito pubblico italiano ha avuto tassi di incremento ben superiori a
quelli del PIL e conseguentemente il rapporto
debito pubblico/PIL ha continuato a crescere: nel 2.000 era pari al 112,95%, nel 2018 era del 134,83% e a fine 2019 era salito al 136,20%; dunque, questo trend di
crescita era già preoccupante anche prima della crisi attuale innescata dalla pandemia.
È
sconcertante verificare come dal 2007 (inizio della prima crisi) fino al 2019 il
debito pubblico italiano sia aumentato di circa 731,8 €/miliardi (+44,63%),
mentre il PIL italiano solo di circa 214,7 €/miliardi
(+13,82%); questo differente tasso di incremento ha costantemente aggravato il
rapporto debito/PIL, nonostante il susseguirsi di manovre finanziarie (come
quella “lacrime e sangue” del governo Monti) e, soprattutto,
all’intervento della BCE (“quantitative easing”) che ha
contenuto la crescita degli interessi e la riduzione dei tassi sui titoli del
debito pubblico.
Infatti, se non ci fosse stata la BCE, oggi l’Italia pagherebbe molti più interessi e il debito risulterebbe ancora più elevato e l’economia italiana ancora più depressa: nel 2.006 gli interessi ammontavano a 69,4 €/miliardi calcolati su un ammontare di 1.446,1 €/miliardi di titoli di stato; nel 2019 gli interessi ammontavano a 67,4 €/miliardi ma calcolati su un ammontare di 2.036,4 €/miliardi di titoli; dal 2006 al 2019 sono stati pagati ben 1.007,9 €/miliardi di interessi, una somma che fa comprendere come il problema del debito pubblico sia assai condizionante per lo sviluppo italiano.
Infatti, se non ci fosse stata la BCE, oggi l’Italia pagherebbe molti più interessi e il debito risulterebbe ancora più elevato e l’economia italiana ancora più depressa: nel 2.006 gli interessi ammontavano a 69,4 €/miliardi calcolati su un ammontare di 1.446,1 €/miliardi di titoli di stato; nel 2019 gli interessi ammontavano a 67,4 €/miliardi ma calcolati su un ammontare di 2.036,4 €/miliardi di titoli; dal 2006 al 2019 sono stati pagati ben 1.007,9 €/miliardi di interessi, una somma che fa comprendere come il problema del debito pubblico sia assai condizionante per lo sviluppo italiano.
Questi
dati confermano anche come siano state inadeguate
(se non sbagliate) la gran parte delle manovre finanziarie varate dai vari governi (senza distinzioni di alleanze partitiche) che hanno
sempre (almeno nelle intenzioni) mirato a un’accelerazione della crescita del
PIL, rifiutando le politiche di austerità fiscale, ma il risultato reale è
stato ben diverso da quanto annunciato: il
PIL è cresciuto poco, mentre il debito pubblico è cresciuto molto di più.
Per
esempio, l’ultima legge finanziaria 2020 a fronte di una manovra complessiva di
32,9 €/miliardi prevedeva solo 16,7 €/miliardi di nuove risorse/tasse,
mentre i rimanenti 16,2 €/miliardi costituivano
nuovo debito; cioè il nuovo governo giallo-rosso ha aumentato il debito pubblico, ha
creato nuova spesa (seppur giustificata come “espansiva”) e mantenuto
tutte le precedenti spese (80 euro, quota 100 e reddito di cittadinanza) ... è
cambiata l’alleanza di governo, ma i provvedimenti sono sostanzialmente simili
a quelli assunti dai precedenti “diversi” governi (… altro che alternativa!!!).
Con
una classe politica che mira sostanzialmente al consenso e, quindi, “spara proposte velleitarie”
(cioè senza alcuna reale copertura) c’è il grosso rischio che anche le manovre
finanziarie post-covid tentino di approfittare
della sospensione del “Patto di Stabilità”
per fare “nuova spesa” e aumentare impunemente il debito pubblico,
rivendicando una maggiore “solidarietà” europea, rinunciando
ancora una volta alle riforme e alla
revisione della spesa pubblica per
evitare perdite di consenso.
Sotto
questo profilo è pienamente comprensibile la riluttanza di molti Paesi Europei
(Germania, Olanda, ecc.) che non vogliono offrire altri alibi all’Italia e
pretendano l’applicazione delle condizionalità
del MES piuttosto che l’emissione di eurobond.
Del
resto, la perdita di fiducia verso il debito pubblico italiano è confermato
dalla riduzione della quota di debito detenuta dagli investitori stranieri: nel
2010 questa quota era del 52%, mentre
a fine 2019 raggiungeva il 31,4% (ci
cui il 3% in mano alla BCE a seguito
del “quantitative easing”).
In conclusione. La pandemia Covid 19 porterà una vera e
propria crisi/recessione
economica; in tal senso occorrerebbe sviluppare la consapevolezza
dei rischi di solvibilità e di “default” che l’Italia correrebbe con
un debito pubblico superiore al 150% del PIL; soprattutto bisognerebbe evitare
di continuare a “governare velleitariamente”, cioè a non fare nulla per uscire
da questa “vulnerabilità” derivante dalla pesantezza del debito pubblico
italiano, sprecando l’ennesima occasione per “mettere a posto” i conti, nonché
(con la massima urgenza) ricercare le idonee iniziative per una concreta
ripresa della crescita, programmando riforme, semplificando la normativa, snellendo il funzionamento della burocrazia e
verificando costantemente gli scostamenti dagli obiettivi.
Insomma,
la pandemia sta evidenziando la fragilità e la vulnerabilità dell’Italia,
derivante dal sostanziale peggioramento delle proprie precarie finanze
pubbliche; ora emergono i limiti delle politiche economiche adottate in questi
ultimi anni dai vari governi perché non è stata mai fatta una reale revisione della spesa pubblica e non è
stato mai varato un serio programma di rientro dell’esposizione debitoria statale
e ora … “i nodi verranno al pettine”.
Euro
Mazzi
PS:
questo post fa parte di un ampio studio sulle problematiche relative alla crisi
economica e finanziaria che da anni interessa l’Italia nel contesto europeo.
Post
sulle conseguenze della pandemia:
- CORONAVIRUS,
CRISI DEL TURISMO E … LA PALMARIA: QUI
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Post sul MES e l’Europa:
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