mercoledì 29 giugno 2016

(CONTRO)RIFORMA COSTITUZIONALE: DECISIONISMO SUPERFICIALE E CONFUSO (parte nona)

Tra le definizioni date da Renzi sulla sua riforma costituzionale scegliamo questa: “Ci accingiamo ad andare verso una forma di democrazia decidente”. Con questa frase Renzi non descrive l’essenza della sua riforma, poiché semplicemente riprende una espressione di Calamandrei, ma la stravolge utilizzandola in senso propagandistico e demagogico per sottolineare alcuni aspetti, come il decisionismo che si contrappone alla lentezza del parlamentarismo degli “inciuci”; il nuovo e il giovane contro il vecchio; il veloce contro il lento; il cambiamento contro la conservazione ... Ma se anche la si considerasse nel merito, questa frase risulta non vera se riferita alla riforma Renzi-Boschi e per dimostrarlo ci limitiamo qui a tre aspetti.


Il bicameralismo differenziato. Se è vero che la riforma pone mano al bicameralismo perfetto (sul piano dei poteri e delle funzioni assegnate a Camera e Senato), non è stata risolta però la questione di una maggiore efficienza legislativa, in quanto sono ora previsti ben 9 procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del Senato: a) su alcune materie rimane il bicameralismo; b) su altre sono leggi monocamerali ma con possibilità di intervento da parte del Senato, differenziato a seconda della natura o degli strumenti di volta in volta utilizzati. Questi diversi procedimenti legislativi finiranno per innalzare il livello delle incertezze e dei conflitti interistituzionali (specie nel caso di diverse maggioranze politiche tra Camera e Senato), facendo crescere il contenzioso costituzionale, tanto in relazione ai giudizi di legittimità costituzionale, quanto ai conflitti di attribuzioni intersoggettivi.
Il doppio incarico. I nuovi senatori non saranno più eletti dal popolo, ma dai consigli regionali e, quindi, saranno anche consiglieri regionali (74) e sindaci (21) che continueranno a svolgere sia la funzione amministrativa a cui sono stati eletti che quella di senatore. Questo doppio incarico peserà sia sui costi (per il costante trasferimento tra Roma e la zona di svolgimento dell’incarico amministrativo), che sul proprio rendimento (se fa il sindaco o il consigliere regionale non farà il senatore e viceversa), che comporterà anche la necessità di servirsi di proprie segreterie o di consiglieri con ulteriore aggravio di costi. Medesime considerazioni per le ex Province (gli Enti di area vasta) che saranno costituite da Sindaci e da Consiglieri Comunali designati da altri consiglieri comunali (e non eletti dal popolo), rischiando di seguire poco sia il proprio comune di appartenenza che l’ente di area vasta. La previsione di un “doppio incarico” è elemento di inefficienza e di confusione, ma soprattutto porterà ad una riaffermazione del ruolo dei partiti o dei gruppi organizzati, poiché questo sarà l’elemento unificante derivante dalla “nomina” di secondo grado senza elezione popolare.
Il regionalismo “accentrato”. Il nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni svuota le seconde a favore del primo, cioè “accentra” sullo Stato una serie di competenze che nella precedente riforma costituzionale (voluta dallo stesso partito nel 2001 con una maggioranza di pochi voti) erano stati “devoluti” alle Regioni; questo ri-accentramento avrà effetti deleteri sui rapporti Stato-Regioni. L’elenco di ciò che spetta allo Stato o alle Regioni, è infatti largamente impreciso e (in alcuni punti) incompleto e si corre il rischio di ulteriore confusione e di inevitabili nuovi conflitti di legittimità costituzionale. Inoltre, ritornare all’accentramento nello Stato in  materie che sono attualmente assegnate alle Regioni comporterà la creazione di periodi transitori e di norme specifiche rispetto a normative attualmente differenti da regione a regione. Insomma,  questo nuovo centralismo non è funzionale all’efficienza del sistema e rischia di causare un aumento della spesa pubblica (specie per il personale), innescando un’ulteriore spirale di oppressivi controlli centralizzati, di deresponsabilizzazione generale senza aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione.
Queste “inefficienze” riguardano gli aspetti centrali e caratterizzanti della nuova riforma costituzionale e, conseguentemente, smentiscono l’assunto iniziale renziano di una “democrazia decidente” perché tale non è nelle sue concrete previsioni, come è stato in precedenza sinteticamente illustrato.
L’esperienza dimostra che quando i disegni di legge sono rimasti troppo a lungo “rimpallati” tra Camera e Senato è stato perché non vi era la volontà politica (o la maggioranza per divisioni e contrasti interni) di approvarli; poiché quando si è voluto in pochi giorni le leggi sono state varate (vedi ad esempio le pensioni); senza dimenticare gli interventi “correttivi” operati costantemente da una Camera rispetto all’altra.
Con la scusa della lentezza della procedura legislativa per il doppio esame si è ottenuto solo un rafforzamento del potere del Governo. In realtà, la riforma Renzi-Boschi nasconde una mutazione: da una repubblica parlamentare, dove il potere è esercitato dal popolo attraverso i suoi rappresentanti eletti, a una repubblica i cui poteri confluiscono nell’esecutivo, come dimostrano alcune previsioni: a) la concentrazione del voto di fiducia nelle mani della sola Camera rafforza il Governo nella sua stabilità e nei tempi per ottenere la fiducia; b) viene introdotto l’istituto del  voto a data certa” (art. 72 Costituzione) attraverso il quale l’Esecutivo potrà chiedere alla Camera  che un disegno di legge essenziale per l’attuazione del suo programma sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto a votazione entro 70 giorni, anche se ciò non può avvenire nel caso di leggi bicamerali, leggi elettorali, leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, leggi che richiedono maggioranze qualificate, c) viene mantenuta ferma la previsione (terzo comma dell’articolo 72) che affida al regolamento interno delle Camere la disciplina dei procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza; d) viene mantenuta la possibilità del Governo di ricorrere ai decreti- legge e di richiedere la fiducia; e) l’accentramento di competenze in capo allo Stato rispetto a quelli delle autonomie regionali e locali (modifiche all’art. 117); f) la legge elettorale “Italicum” improntata ad una ratio nettamente maggioritaria, con il riconoscimento di un consistente premio in seggi alla lista vincente (nel primo turno o nell’eventuale ballottaggio).
La riforma Renzi-Boschi (insieme alla legge elettorale “Italicum”) da vita indirettamente ad una sorta di premierato forte ed a una semplificazione e verticalizzazione del sistema politico, incentrato sul ruolo dei leader più che sulle compagini politiche collettive. Inoltre, privilegia la governabilità (cioè la possibilità per il partito/lista che vince le elezioni di avere una maggioranza in Parlamento) sulla rappresentatività (eliminazione della elezione popolare per Senato e Enti di Area Vasta); riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo.
Il partito di maggioranza benché teoricamente espressione di una quantità di voti minoritari rispetto al complesso di quelli attribuiti agli altri partiti dal corpo elettorale, potrà avere un’incidenza determinante nell’elezione degli organi costituzionali di garanzia (teoricamente super partes), quali il Presidente della Repubblica, i membri della Corte Costituzionale e del CSM.
Il problema dell’efficienza è solo in modestissima parte conseguenza di regole e di modelli, ed in grandissima parte frutto del sistema politico e del corretto funzionamento dei canali di trasmissione tra società e sistema istituzionale. I rafforzamenti, strutturali e funzionali dell’esecutivo possono facilitare, in certi momenti storici, il traghettamento verso un modello organizzativo più efficiente e responsabile, ma alla fine non possono supplire alle inefficienze strutturali del sistema politico.
Inoltre, l’esigenza di abbreviare l’iter legislativo e di assicurare stabilità alle maggioranze, tagliando inciuci e ricatti partitici, nonché quella di ridurre le spese, può essere soddisfatta anche senza sacrificare rappresentatività popolare e garanzie, perché la democrazia non esce migliorata dalla loro riduzione semmai aumenta il rischio di pericolose semplificazioni, soprattutto quando la previsione di una sola Camera elettiva, rappresentativa del popolo, è abbinata ad un sistema elettorale accentuatamente maggioritario.
E’ inusuale che sia il Governo in prima persona a fare la propaganda per il SI, una propaganda  che dimostra l’intento di attuare una sorta di plebiscito sulla politica del “premier” e che facilmente e  semplicisticamente etichetta come “conservatori” o  “reazionari” chi solleva critiche piuttosto che confrontarsi con serenità sui profili (tanti, purtroppo …) problematici che presenta il testo oggetto del prossimo voto referendario.
Questa propaganda, il cui unico scopo è far durare questo Governo, permettendogli di occupare soprattutto il potere, alterna furbesche e periodiche regalie (gli 80 euro ne sono un esempio) con una abile comunicazione che enfatizza (con slogan e twitt) mezze verità e autentiche bugie.
Allora il compito di coloro che si oppongono a questa riforma costituzionale non è solo quello di spiegare le ragioni che consigliano un NO al referendum (come sopra è stato tentato di fare), ma è anche quello di ricordare a tutti gli “apprendisti stregoni” che la Costituzione dovrebbe essere terreno di tutti e non di pochi; la Costituzione è una casa comune, non deve diventare un territorio esclusivo  per costruire il proprio potere. Una Costituzione non deve illuminare la strada soltanto ai presenti ma anche a coloro che vengono dopo, i posteri.

Euro Mazzi

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