Tra
le definizioni date da Renzi sulla sua riforma costituzionale scegliamo questa:
“Ci accingiamo ad andare verso una forma
di democrazia decidente”.
Con questa frase Renzi non descrive l’essenza della sua riforma, poiché
semplicemente riprende una espressione di Calamandrei, ma la stravolge utilizzandola
in senso propagandistico e demagogico per sottolineare alcuni
aspetti, come il decisionismo che si
contrappone alla lentezza del parlamentarismo degli “inciuci”; il nuovo e il giovane contro il vecchio; il veloce
contro il lento; il cambiamento
contro la conservazione ... Ma se anche la si considerasse nel merito, questa
frase risulta non vera se riferita alla
riforma Renzi-Boschi e per dimostrarlo ci limitiamo qui a tre aspetti.
Il bicameralismo
differenziato. Se è vero che
la riforma pone mano al bicameralismo perfetto (sul piano dei poteri e delle
funzioni assegnate a Camera e Senato), non è stata risolta però la questione di
una maggiore efficienza legislativa,
in quanto sono ora previsti ben 9
procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di
intervento del Senato: a) su alcune materie rimane il bicameralismo; b) su
altre sono leggi monocamerali ma con possibilità di intervento da parte del
Senato, differenziato a seconda della natura o degli strumenti di volta in
volta utilizzati. Questi diversi procedimenti legislativi finiranno per
innalzare il livello delle incertezze
e dei conflitti interistituzionali (specie
nel caso di diverse maggioranze politiche tra Camera e Senato), facendo
crescere il contenzioso costituzionale,
tanto in relazione ai giudizi di legittimità costituzionale, quanto ai
conflitti di attribuzioni intersoggettivi.
Il doppio
incarico.
I nuovi senatori non saranno più eletti dal popolo, ma dai consigli regionali
e, quindi, saranno anche consiglieri regionali (74) e sindaci (21) che
continueranno a svolgere sia la funzione amministrativa a cui sono stati eletti
che quella di senatore. Questo doppio
incarico peserà sia sui costi (per il costante trasferimento tra Roma e la
zona di svolgimento dell’incarico amministrativo), che sul proprio rendimento (se fa il sindaco o il consigliere
regionale non farà il senatore e viceversa), che comporterà anche la necessità
di servirsi di proprie segreterie o di consiglieri con ulteriore aggravio di
costi. Medesime considerazioni per le ex Province (gli Enti di area vasta) che
saranno costituite da Sindaci e da Consiglieri Comunali designati da altri
consiglieri comunali (e non eletti dal popolo), rischiando di seguire poco sia
il proprio comune di appartenenza che l’ente di area vasta. La previsione di un
“doppio incarico” è elemento di
inefficienza e di confusione, ma soprattutto porterà ad una riaffermazione del ruolo dei partiti o dei
gruppi organizzati, poiché questo sarà l’elemento unificante derivante
dalla “nomina” di secondo grado senza elezione popolare.
Il regionalismo
“accentrato”.
Il nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni svuota le seconde a favore
del primo, cioè “accentra” sullo Stato
una serie di competenze che nella precedente riforma costituzionale (voluta
dallo stesso partito nel 2001 con una maggioranza di pochi voti) erano stati
“devoluti” alle Regioni; questo ri-accentramento avrà effetti deleteri sui
rapporti Stato-Regioni. L’elenco di ciò che spetta allo Stato o alle Regioni, è
infatti largamente impreciso e (in
alcuni punti) incompleto e si corre
il rischio di ulteriore confusione e di inevitabili nuovi conflitti di legittimità costituzionale. Inoltre, ritornare
all’accentramento nello Stato in materie
che sono attualmente assegnate alle Regioni comporterà la creazione di periodi
transitori e di norme specifiche rispetto a normative attualmente differenti da
regione a regione. Insomma, questo nuovo centralismo non è funzionale
all’efficienza del sistema e rischia di causare un aumento della spesa pubblica
(specie per il personale), innescando un’ulteriore spirale di oppressivi controlli centralizzati, di deresponsabilizzazione generale senza
aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione.
Queste
“inefficienze” riguardano gli aspetti centrali e caratterizzanti della nuova
riforma costituzionale e, conseguentemente, smentiscono l’assunto iniziale
renziano di una “democrazia decidente”
perché tale non è nelle sue concrete previsioni, come è stato in precedenza
sinteticamente illustrato.
L’esperienza
dimostra che quando i disegni di legge sono rimasti troppo a lungo “rimpallati”
tra Camera e Senato è stato perché non
vi era la volontà politica (o la maggioranza per divisioni e contrasti
interni) di approvarli; poiché quando si è voluto in pochi giorni le leggi sono
state varate (vedi ad esempio le pensioni); senza dimenticare gli interventi
“correttivi” operati costantemente da una Camera rispetto all’altra.
Con
la scusa della lentezza della procedura legislativa per il doppio esame si è
ottenuto solo un rafforzamento del potere
del Governo. In realtà, la riforma Renzi-Boschi nasconde una mutazione: da
una repubblica parlamentare, dove il potere è esercitato dal popolo attraverso
i suoi rappresentanti eletti, a una repubblica
i cui poteri confluiscono nell’esecutivo, come dimostrano alcune
previsioni: a) la concentrazione del
voto di fiducia nelle mani della sola Camera rafforza il Governo nella sua
stabilità e nei tempi per ottenere la fiducia; b) viene introdotto l’istituto
del “voto a data certa” (art. 72 Costituzione) attraverso il quale
l’Esecutivo potrà chiedere alla Camera
che un disegno di legge essenziale per l’attuazione del suo programma
sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto a votazione entro
70 giorni, anche se ciò non può avvenire nel caso di leggi bicamerali, leggi
elettorali, leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali,
leggi che richiedono maggioranze qualificate, c) viene mantenuta ferma la
previsione (terzo comma dell’articolo 72) che affida al regolamento interno
delle Camere la disciplina dei procedimenti
abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza; d)
viene mantenuta la possibilità del Governo di ricorrere ai decreti- legge e di richiedere la fiducia; e) l’accentramento di competenze in capo allo
Stato rispetto a quelli delle autonomie regionali e locali (modifiche all’art.
117); f) la legge elettorale “Italicum”
improntata ad una ratio nettamente maggioritaria, con il riconoscimento di un
consistente premio in seggi alla lista vincente (nel primo turno o
nell’eventuale ballottaggio).
La
riforma Renzi-Boschi (insieme alla legge elettorale “Italicum”) da vita indirettamente ad una sorta di premierato forte ed a una semplificazione
e verticalizzazione del sistema
politico, incentrato sul ruolo dei leader più che sulle compagini
politiche collettive. Inoltre, privilegia la governabilità (cioè la possibilità per il partito/lista che vince
le elezioni di avere una maggioranza in Parlamento) sulla rappresentatività
(eliminazione della elezione popolare per Senato e Enti di Area Vasta); riduce
il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del
Governo.
Il
partito di maggioranza benché teoricamente espressione di una quantità di voti
minoritari rispetto al complesso di quelli attribuiti agli altri partiti dal
corpo elettorale, potrà avere
un’incidenza determinante nell’elezione degli organi costituzionali di garanzia
(teoricamente super partes), quali il
Presidente della Repubblica, i membri della Corte Costituzionale e del CSM.
Il
problema dell’efficienza è solo in
modestissima parte conseguenza di regole e di modelli, ed in grandissima
parte frutto del sistema politico e del corretto funzionamento dei canali di
trasmissione tra società e sistema istituzionale. I rafforzamenti, strutturali
e funzionali dell’esecutivo possono facilitare, in certi momenti storici, il traghettamento
verso un modello organizzativo più efficiente e responsabile, ma alla fine non possono supplire alle inefficienze
strutturali del sistema politico.
Inoltre,
l’esigenza di abbreviare l’iter legislativo e di assicurare stabilità alle
maggioranze, tagliando inciuci e ricatti partitici, nonché quella di ridurre le
spese, può essere soddisfatta anche senza sacrificare rappresentatività
popolare e garanzie, perché la democrazia non esce migliorata dalla loro riduzione
semmai aumenta il rischio di pericolose
semplificazioni, soprattutto quando la previsione di una sola Camera
elettiva, rappresentativa del popolo, è abbinata ad un sistema elettorale
accentuatamente maggioritario.
E’
inusuale che sia il Governo in prima
persona a fare la propaganda per il SI, una propaganda che dimostra l’intento di attuare una sorta
di plebiscito sulla politica del
“premier” e che facilmente e semplicisticamente etichetta come
“conservatori” o “reazionari” chi solleva critiche piuttosto che confrontarsi con serenità sui profili
(tanti, purtroppo …) problematici che presenta il testo oggetto del prossimo
voto referendario.
Questa
propaganda, il cui unico scopo è far durare questo Governo, permettendogli di
occupare soprattutto il potere, alterna furbesche e periodiche regalie (gli 80
euro ne sono un esempio) con una abile comunicazione che enfatizza (con slogan
e twitt) mezze verità e autentiche
bugie.
Allora
il compito di coloro che si oppongono a questa riforma costituzionale non è
solo quello di spiegare le ragioni
che consigliano un NO al referendum (come sopra è stato tentato di
fare), ma è anche quello di ricordare a tutti gli “apprendisti stregoni” che la Costituzione dovrebbe essere terreno di tutti e non di pochi; la Costituzione è una casa comune,
non deve diventare un territorio esclusivo per costruire il proprio potere. Una
Costituzione non deve illuminare la strada soltanto ai presenti ma anche a
coloro che vengono dopo, i posteri.
Euro
Mazzi
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