La
riforma costituzionale Renzi/Boschi ha cancellato dal nuovo testo ogni
riferimento alle “Province”, portando
a compimento un impegno preso in precedenza da vari governi e ritenuto un passaggio
essenziale per favorirne la soppressione. Se però si approfondisce
l’articolazione del testo di riforma allora si scopre che non si può parlare di eliminazione, semmai di trasformazione della Provincia (quale ente costituzionalmente
necessario dotato di funzioni proprie) in ente di secondo grado genericamente
denominati “enti di area vasta”, previsti da una disposizione finale
della riforma stessa (art. 40, comma 4), che rimanda l’attribuzione dei suoi profili ordinamentali generali alla
legge statale e le ulteriori disposizioni alla legge regionale.
Dunque,
la stessa riforma costituzionale prevede
non l’abolizione delle Province, ma la loro trasformazione in “ente di area vasta”, del resto già
così denominate dalla legge 7/4/2014, n. 56 (c.d. legge Delrio) che aveva già
delineato tale coincidenza al comma 3 dell’art. 1: “Le province sono enti territoriali di area vasta” e trasformato il
presidente ed i consigli provinciali in organi
elettivi di secondo grado, con
diritto di elettorato attivo e passivo riconosciuto ai sindaci e ai consiglieri
dei comuni della provincia. Insomma. le Province (uno dei simboli della “rottamazione costituzionale” o “degli enti inutili” dell’ex sindaco di
Firenze) in realtà non sono di fatto eliminati … “una bella presa in giro”!!!
La
propaganda dei favorevoli alla riforma costituzionale Renzi/Boschi insiste
molto sull’abolizione delle Province (ritenute enti inutili e costosi) e sui
conseguenti risparmi: “Cosa succede se vince
il Sì? Addio province, per sempre”… ma è
una favola!!! Il termine abolizione o soppressione è sbagliato, poiché
si dovrebbe parlare di “trasformazione”
che non comporta né l’estinzione delle Province né la creazione di un ente
nuovo, ma semplicemente la loro trasformazione in organi di secondo livello, in
quanto non direttamente eletti dalla popolazione (come per il Senato).
La
riforma costituzionale non sopprime le Province, ma le toglie dal testo costituzionale
(“decostituzionalizza”)
per rimuovere innanzitutto gli ostacoli e le incertezze giuridiche collegate al
loro depotenziamento per via di precedenti riforme legislative (appunto la
legge Delrio) che riducono la legittimazione democratica degli organi, le
funzioni dell’ente e la sua autonomia in relazione agli altri enti che invece continuano
a costituire la Repubblica (Comuni e Regioni); soprattutto il legislatore vuole
avere le mani libere per ulteriori
interventi sulle Province nella direzione della intercomunalità.
Infatti,
nella propaganda dei favorevoli alla riforma Renzi/Boschi si insiste su queste
caratteristiche: “E’ questa la nuova Area
Vasta: il luogo in cui i Sindaci di un territorio, superando ogni limite di
appartenenza politica, lavorano insieme per il bene del territorio. Per
questo l’elezione di secondo livello diventa l’occasione per ampliare la
responsabilità di tutti al servizio delle comunità e non certo un limite al
processo democratico”. Si tratta di puro
fumo negli occhi!!!
In
realtà non si hanno né idee e né progetti per dare razionali funzioni a queste forme di aggregazione e di coordinamento
fra comuni per l’esercizio di funzioni di governo di cosiddetta «area vasta». Si procede con frasi fatte, costantemente ripetute e
ricopiate, che nascondono un vuoto assai
preoccupante di progetti, esattamente come già avvenuto per le unioni e
fusioni di Comuni. Si crede semplicisticamente che sia sufficiente aggregare
gli enti per poter automaticamente produrre economie di scala con grandi
risparmi e mantenimento del medesimo livello dei servizi, ma si dimentica che
al contrario occorre: a) fare precise e puntuali analisi sulla situazione di
partenza; b) avere chiaro il punto di arrivo in termini organizzativi,
finanziari, normativi, ecc.; c) occorre delineare il percorso necessario al
fine di passare dal punto di partenza al punto di arrivo. Cioè occorre un progetto (o un piano
industriale) … e questo al momento
manca.
Infatti,
se la riforma costituzionale venisse confermata dal referendum, allora il
Governo dovrà legiferare e spiegare come saranno strutturati questi “enti
di area vasta” che prenderanno il posto delle Provincie, precisando le
loro funzioni (solo amministrative o anche poteri strategici e di indirizzo
politico), stabilendo le procedure di nomina, ecc.; poi toccherà alle Regioni
delimitarne i confini e i comuni che vi faranno parte.
In questo deserto progettuale non si mette mano alla Costituzione se non
si hanno le idee chiare, se non si sa dove andare; un esempio: il titolo V
della Costituzione (quello che riguarda Regioni e Comuni) nel 2001 è stato
oggetto di modifiche in senso quasi federalista dello Stato; ora al contrario
si torna indietro riaccentrando sullo Stato la maggior parte delle competenze
(specie con l’introduzione della c.d. “clausola di supremazia”). Queste oscillazioni sono prodotte dal
medesimo partito (il PD) che di volta in volta persegue obiettivi “esterni” al
merito costituzionale: nel 2001 doveva contenere il consenso della Lega (devolution), ora deve rispondere alle
esigenze di tagli imposti dall’Unione Europea; ma queste oscillazioni oltre a produrre confusione, non permettono neanche
di conseguire gli auspicati risparmi, anzi minacciano di ulteriormente
peggiorare la situazione finanziaria.
Del resto, le Province dal 1974 al 2009
sono aumentate passando da 94 a 110; mentre la recente vicenda delle Province (anni
2010-2016) assomiglia a una storia
paradossale; periodicamente, qualcuno ne ha proposto l’abolizione,
ritenendole «enti inutili» che costano e contano poco, titolari di non
meglio identificati poteri e competenze, presenza superflua fra il Comune e
l’assai più rilevante Regione.
Dopo
il fallito tentativo di riordino territoriale del governo Monti (con i decreti legge
SalvaItalia n. 201/2011 e Spending review n. 95/2012) e di quello del Governo
Letta, dopo l’entrata in vigore della legge n. 56/2014 (cd. “legge Delrio”), ora
con l’eventuale riforma costituzionale, le Province si trovano ancor più degli
altri enti in una vera e propria “terra
di nessuno” in attesa di completare la loro trasformazione (da un tipo di
ente ad un altro) senza sapere in quale
direzione effettivamente dovranno andare.
Di
sicuro, al momento: a) sembrano essere state superate le proposte politiche radicali di soppressione delle Province
(in quanto sparisce il nome dalla Costituzione, ma si trasforma l’ente in “area vasta”); b) l’ambiguità e le
incertezze della legislazione testimoniano della mancanza di una riforma amministrativa organica e coerente che si riflette anche nel
testo della riforma costituzionale Renzi/Boschi (rafforzamento dei poteri del
Governo, riaccentramento statalistico di molte funzioni regionali, limitazione
delle autonomie locali, riduzione delle rappresentatività degli enti Senato e
Province quali enti di secondo grado non più eletti dal popolo).
In
questo contesto (che si può giustamente considerare di contro-riforma), per le Province perdura il periodo di
incertezza per l’esercizio di funzioni fondamentali per i cittadini (dalla
manutenzione delle strade e delle scuole superiori, alla gestione dei rifiuti, alla
tutela idrogeologica e ambientale, ai problemi per il trasferimento del
personale, ai finanziamenti, all’amministrazione dei beni immobili) e, inoltre,
molte province già dal 2013 sono già o rischiano il dissesto finanziario (per
esempio sulla situazione della Provincia di La Spezia vedere qui: http://castelnuovopertutti.blogspot.it/2015/08/il-quasi-dissesto-della-provincia.html ).
E sul piano dei
risparmi? Gli effetti della legge Delrio n. 56/2014, seppur espressamente
qualificata come transitoria (nelle more della riforma costituzionale del
Titolo V e delle relative norme di attuazione) hanno portato alcuni limitati risparmi, in quanto i nuovi organi della Provincia
(presidente, consiglio e assemblea dei sindaci) sono tutti incarichi a titolo
gratuito. A tale riguardo, è stato
calcolato che il costo di 1.774 amministratori provinciali nel 2011 è stato di
111 milioni di euro, mentre la spesa
presunta per nuove elezioni provinciali era stata stimata in 318,7 milioni di
euro, di cui circa 118,4 milioni a carico dello Stato. Questi sono
attualmente tutti i risparmi conseguiti dalla legge 56/2014 (e non dalla
riforma costituzionale), poiché la Corte dei Conti in un suo studio datato
30/4/2015 (“Il riordino delle Province”)
ha evidenziato le molte problematiche
ora presenti dopo l’entrata in vigore della legge 56/2014.
La
Corte ha evidenziato come ci siano “ritardi e difficoltà nella fase
attuativa, in particolare per quanto riguarda il riordino delle funzioni
delegate o trasferite alle Province”; come non ci sia corrispondenza tra funzioni e loro copertura finanziaria “nessuna prospettiva di riallocazione delle
funzioni provinciali può essere attuata senza una attenta e congiunta analisi e
valutazione tra Stato e Regioni dei costi delle funzioni da riordinare e del
relativo personale”; l’aumento di criticità
finanziarie per “un graduale, e
pressoché diffuso, deterioramento della finanza provinciale”.
Dunque,
la Corte dei Conti più che dei possibili risparmi (al momento non
quantificabili eccetto quelli sopra evidenziati) è assai preoccupata dagli squilibri che si stanno manifestando a seguito della
riforma degli “enti di area vasta” a causa delle “rilevate anomalie, finora
registrate nello sviluppo delle fasi attuative della legge di riordino, con la sostenibilità finanziaria del
contributo richiesto al comparto”.
Se
il vero obiettivo di queste riforme fosse quello
di semplificare la PA (riordinando le funzioni amministrative ed eliminando le
sovrapposizioni tra enti) e di conseguire risparmi, mantenendo alti livelli
nell’erogazione dei servizi … allora … siamo lontani, ma molto lontani … e proprio
la lontananza tra obiettivi e previsioni normative caratterizza questi
interventi come una vera controriforma.
Euro Mazzi
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