mercoledì 8 giugno 2016

(CONTRO)RIFORMA COSTITUZIONALE: UNA CORTE SOPRA LE PARTI O DI PARTE? (sesta parte)

Le nuove norme costituzionali che saranno oggetto del prossimo referendum apportano alcune modifiche anche al titolo VI intitolato “Garanzie costituzionali”, nella parte che tratta della Corte Costituzionale (art. 134-137). Il ruolo svolto dalla Corte è cruciale per l’ordinamento giuridico, poiché con le sue pronunce vengono eliminati dubbi interpretativi su disposizioni di legge o sull’effettiva competenza dei diversi organi dello Stato, “supplendo” spesso al legislatore e/o al Governo, come avvenuto a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001.
Sulla Corte costituzionale le modifiche introdotte dalla riforma riguardano in particolare: a) un comma aggiunto all’art. 134 attinente alla verifica di “legittimità costituzionale delle leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”; b) le elezioni dei suoi membri, prevedendo all’art. 135 che la sua composizione di quindici giudici, dei quali un terzo nominati dal Presidente della Repubblica, un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative, “tre dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica”.
Sembrerebbero invariati le modalità di elezione (previsti dalla legge costituzionale n. 2 del 1967 all’articolo 3) a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea per i primi tre scrutini e successivamente è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea.
Apparentemente queste nuove regole sembrano apportare lievi modifiche, permanendo le stesse garanzie della procedura di elezioni, poiché presuppongono un consenso superiore alla pura maggioranza assoluta, obbligando il partito di maggioranza alla Camera e al Senato a ricercare una convergenza con le altre forze politiche per procedere alla nomina dei giudici.
Solo approfondendo l’analisi si possono invece scoprire le insidie contenute in queste modifiche, soprattutto mettendole in relazione con il combinato disposto: a) delle norme della legge elettorale (il c.d. Italicum), che assicura alla lista vincitrice la maggioranza dei seggi (55% pari a 340 deputati) della Camera; b) unite alle norme riformate della composizione del Senato (95 senatori eletti dai Consigli Regionali più 5 dal Presidente della Repubblica) che favoriscono il partito più rappresentato nei Consigli Regionali (attualmente il PD); c) nonché a quelle per le elezioni del Presidente della Repubblica che potrebbero permettere alla maggioranza di governo di sceglierselo autonomamente.
Il rischio di una eventuale convergenza di intenti nella scelta dei giudici costituzionali da parte di questi tre organi istituzionali potrebbe aggravare le problematiche in punto di imparzialità di una Corte composta di giudici che rischiano di essere espressi da una stessa maggioranza parlamentare.
Inoltre, non bisogna dimenticare che Camera e Senato eleggono un terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104 Costituzione). Attualmente la L. 44/2002 fissa in 24 il numero dei componenti elettivi, di cui 16 membri togati e 8 laici; questi ultimi sono eletti dal Parlamento in seduta comune con votazione a scrutinio segreto e con la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’assemblea per i primi due scrutini, mentre dal terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
La possibilità che un solo partito (e la sua dirigenza) possa riuscire a far convergere la volontà di  tre istituzioni (Presidente, Camera e Senato) sul nominare persone della propria area rischia di incidere sull’esercizio imparziale del ruolo di garante costituzionale della Corte. Ma non solo. Un Capo del Governo, oltretutto segretario del maggiore partito, assumerebbe una notevole centralità istituzionale in grado di condizionare direttamente o indirettamente tutte le principali istituzioni (Presidente, Camera, Senato e Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura).
Anche le previsioni dell’art 134 sul controllo preventivo di costituzionalità delle leggi elettorali promosso da 1/4 dei componenti della Camera ed 1/3 dei componenti del Senato entro 10 giorni dall’approvazione della legge comporta benefici e costi. I benefici sono: a) può portare ad una elaborazione della legge elettorale maggiormente partecipata e condivisa tra forza politiche per evitare il ricorso di costituzionalità, rendendo la maggioranza più incline a dialogare e negoziare i contenuti con le minoranze. b) può favorire un controllo più effettivo, in quanto svolto a monte dell’applicazione della legge, senza più il rischio di potenziale delegittimazione del Parlamento in carica, evitando il problema della decorrenza temporale degli effetti e della potenziale illegittimità degli atti parlamentari approvati. I “costi” sono: a) il rischio di “politicizzazione” della Corte, la quale sarà più esposta a pressioni e a incorre in maggiori rischi di delegittimazione. b) il rischio di “giuridicizzare” il dibattito politico, inteso come sistematica minaccia di finire quanto iniziato nell’aule parlamentari dinanzi alla Corte, trasformando la lotta politica intrapresa con strumenti giudiziari.
Insomma, sia dalle modalità di nomina dei giudici (legate in modo stretto alla “maggioranza di governo”, che potrebbe essere tentata di muoversi secondo canoni “prettamente” politici, e non già secondo i fini di assicurare una Corte sempre più indipendente e competente), che dal ricorso ad un giudizio preventivo derivano rischi notevoli sull’imparzialità della Corte.
Va ricordato, comunque, che ci sono anche altri elementi che possono correggere i rischi di parzialità: 1) i quindici giudici decidono tutto collegialmente, la Corte costituzionale è infatti l’unica istituzione della Repubblica in cui la collegialità è una caratteristica decisiva; 2) il numero limitato dei giudici (15); 3) l’impegno esclusivo alla Corte (durante il mandato i giudici non possono svolgere alcuna attività professionale); 4) il mandato di nove anni (il più lungo fra le istituzioni repubblicane); 5) la non rieleggibilità e la non prorogabilià; 6) le diverse provenienze all’interno del collegio; 7) le maggioranze richieste; 8) ogni giudice soprattutto può compiere il proprio mandato “secundum constitutionem” e non sulla base delle esigenze della maggioranza che eventualmente lo ha eletto.
Di tutti gli istituti può dirsi che la loro sorte è affidata alla capacità dei titolari, ma questo vale in particolar modo per i giudici di una Corte Costituzionale, perché essi devono riunire doti non facilmente riunibili: la piena indipendenza dalle parti politiche in contrasto tra loro, ma anche la conoscenza precisa delle posizioni di ogni formazione politica, la consapevolezza delle aspirazioni popolari e dei problemi sociali. I giudici costituzionali dovrebbero avere una sensibilità politica, ma non una dipendenza politica o una rappresentanza di interessi o una soggezione né diretta né inscindibile alla maggioranza parlamentare.
Ma questi elementi non cambiano il giudizio su un meccanismo istituzionalizzato che può permettere alla maggioranza di raggiungere il proprio obiettivo di votare giudici espressione della propria area e, nel prossimo futuro, ci si dovrà (forse) preoccupare della tenuta della Corte come organo super partes che sarà comunque sempre più coinvolta nella dialettica politica.

Euro Mazzi

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