Le
nuove norme costituzionali che saranno oggetto del prossimo referendum
apportano alcune modifiche anche al titolo VI intitolato “Garanzie costituzionali”, nella parte che tratta della Corte
Costituzionale (art. 134-137). Il ruolo svolto dalla Corte è cruciale per
l’ordinamento giuridico, poiché con le sue pronunce vengono eliminati dubbi
interpretativi su disposizioni di legge o sull’effettiva competenza dei diversi
organi dello Stato, “supplendo” spesso al legislatore e/o al Governo, come
avvenuto a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001.
Sulla
Corte costituzionale le modifiche introdotte dalla riforma riguardano in
particolare: a) un comma aggiunto all’art. 134 attinente alla verifica di “legittimità costituzionale delle leggi che
disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica”; b) le elezioni dei suoi membri, prevedendo all’art. 135 che la
sua composizione di quindici giudici, dei quali un terzo nominati dal
Presidente della Repubblica, un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed
amministrative, “tre dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica”.
Sembrerebbero
invariati le modalità di elezione (previsti dalla legge costituzionale n. 2 del
1967 all’articolo 3) a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi dei
componenti l’Assemblea per i primi tre scrutini e successivamente è sufficiente
la maggioranza dei tre quinti dei
componenti l’Assemblea.
Apparentemente
queste nuove regole sembrano apportare lievi modifiche, permanendo le stesse garanzie
della procedura di elezioni, poiché presuppongono un consenso superiore alla
pura maggioranza assoluta, obbligando il partito di maggioranza alla Camera e
al Senato a ricercare una convergenza
con le altre forze politiche per procedere alla nomina dei giudici.
Solo
approfondendo l’analisi si possono invece scoprire le insidie contenute in
queste modifiche, soprattutto mettendole in relazione con il combinato
disposto: a) delle norme della legge elettorale (il c.d. Italicum), che assicura alla
lista vincitrice la maggioranza dei seggi (55% pari a 340 deputati) della
Camera; b) unite alle norme riformate della composizione del Senato (95 senatori eletti dai Consigli Regionali
più 5 dal Presidente della Repubblica) che favoriscono
il partito più rappresentato nei Consigli Regionali (attualmente il PD); c)
nonché a quelle per le elezioni del Presidente della Repubblica che potrebbero
permettere alla maggioranza di governo
di sceglierselo autonomamente.
Il
rischio di una eventuale convergenza di
intenti nella scelta dei giudici costituzionali da parte di questi tre
organi istituzionali potrebbe aggravare
le problematiche in punto di imparzialità di una Corte composta di giudici che
rischiano di essere espressi da una
stessa maggioranza parlamentare.
Inoltre,
non bisogna dimenticare che Camera e Senato eleggono un terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura
(art. 104 Costituzione). Attualmente la L. 44/2002 fissa in 24 il numero dei
componenti elettivi, di cui 16 membri togati e 8 laici; questi ultimi sono
eletti dal Parlamento in seduta comune con votazione a scrutinio segreto e con
la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’assemblea per i primi due
scrutini, mentre dal terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre
quinti dei votanti.
La possibilità
che un solo partito (e la sua dirigenza) possa riuscire a far convergere la
volontà di tre istituzioni (Presidente,
Camera e Senato) sul nominare persone della propria area rischia di incidere sull’esercizio
imparziale del ruolo di garante costituzionale della Corte. Ma non solo.
Un Capo del Governo, oltretutto segretario del maggiore partito, assumerebbe
una notevole centralità istituzionale in
grado di condizionare direttamente o indirettamente tutte le principali
istituzioni (Presidente, Camera, Senato e Corte Costituzionale, Consiglio
Superiore della Magistratura).
Anche
le previsioni dell’art 134 sul controllo preventivo di costituzionalità delle
leggi elettorali promosso da 1/4 dei componenti della Camera ed 1/3 dei
componenti del Senato entro 10 giorni dall’approvazione della legge comporta
benefici e costi. I benefici sono: a) può portare ad una elaborazione della
legge elettorale maggiormente
partecipata e condivisa tra forza politiche per evitare il ricorso di
costituzionalità, rendendo la maggioranza più incline a dialogare e negoziare i
contenuti con le minoranze. b) può favorire un controllo più effettivo, in quanto svolto a monte
dell’applicazione della legge, senza più il rischio di potenziale
delegittimazione del Parlamento in carica, evitando il problema della
decorrenza temporale degli effetti e della potenziale illegittimità degli atti
parlamentari approvati. I “costi” sono: a) il rischio di “politicizzazione” della Corte, la quale sarà più
esposta a pressioni e a incorre in maggiori rischi di delegittimazione. b) il rischio di “giuridicizzare” il
dibattito politico, inteso come sistematica minaccia di finire quanto iniziato
nell’aule parlamentari dinanzi alla Corte, trasformando la lotta politica
intrapresa con strumenti giudiziari.
Insomma,
sia dalle modalità di nomina dei giudici (legate in modo stretto alla “maggioranza
di governo”, che potrebbe essere tentata di muoversi secondo canoni “prettamente”
politici, e non già secondo i fini di assicurare una Corte sempre più
indipendente e competente), che dal ricorso ad un giudizio preventivo derivano rischi notevoli sull’imparzialità
della Corte.
Va
ricordato, comunque, che ci sono anche altri elementi che possono correggere i rischi di parzialità: 1) i
quindici giudici decidono tutto collegialmente, la Corte costituzionale è
infatti l’unica istituzione della Repubblica in cui la collegialità è una
caratteristica decisiva; 2) il numero limitato dei giudici (15); 3) l’impegno
esclusivo alla Corte (durante il mandato i giudici non possono svolgere alcuna
attività professionale); 4) il mandato di nove anni (il più lungo fra le
istituzioni repubblicane); 5) la non rieleggibilità e la non prorogabilià; 6) le
diverse provenienze all’interno del collegio; 7) le maggioranze richieste; 8) ogni
giudice soprattutto può compiere il proprio mandato “secundum constitutionem” e non sulla base delle esigenze della
maggioranza che eventualmente lo ha eletto.
Di
tutti gli istituti può dirsi che la loro sorte
è affidata alla capacità dei titolari, ma questo vale in particolar modo
per i giudici di una Corte Costituzionale, perché essi devono riunire doti non
facilmente riunibili: la piena
indipendenza dalle parti politiche in contrasto tra loro, ma anche la
conoscenza precisa delle posizioni di ogni formazione politica, la
consapevolezza delle aspirazioni popolari e dei problemi sociali. I giudici costituzionali dovrebbero avere
una sensibilità politica, ma non una dipendenza politica o una rappresentanza
di interessi o una soggezione né diretta né inscindibile alla maggioranza
parlamentare.
Ma
questi elementi non cambiano il giudizio su
un meccanismo istituzionalizzato che può permettere alla maggioranza di
raggiungere il proprio obiettivo di votare giudici espressione della propria
area e, nel prossimo futuro, ci si dovrà (forse) preoccupare della tenuta della
Corte come organo super partes che sarà comunque sempre più coinvolta nella dialettica politica.
Euro
Mazzi
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