La
riforma Costituzionale 2016 prevede, da una parte, l’istituzione di un Senato che “rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo
tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”; dall’altra,
procede ad una nuova modifica del Titolo
V della Costituzione (articoli dal 114 al 133), cioè di quella parte della
Costituzione dedicata a “le Regioni, le
Città metropolitane e i Comuni” definiti “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi
fissati dalla Costituzione”; l’insieme di questi due punti farebbe pensare
a una omogenea riforma del regionalismo, ma
non è vero … cerchiamo di ragionarci sopra per dimostrarlo con opportune argomentazioni.
Intanto
occorre evidenziare che ora viene “riformata”
la riforma costituzionale del 2001 (quella voluta dall’Ulivo di Veltroni-Rutelli
sotto il Governo Amato), allora definita come “la più grande riforma costituzionale finora approvata dall’entrata in
vigore della Costituzione”, ma che in realtà si è poi manifestata (e
l’attuale riforma lo dimostra) come una iniziativa
affrettata (approvata sul finire della XIII legislatura, da una maggioranza
parlamentare di appena quattro voti), superficiale
(varata per contenere il consenso a favore della Lega Nord), scritta male (scimmiottava il
federalismo leghista, ma fece sparire ogni verifica sulle spese delle regioni,
trasferendovi molte competenze), che in
questi soli 15 anni ha dato vita sia ad una forte espansione della spesa
regionale che ad una consistente produzione di contrasti presso la Corte
Costituzionale.
Lo
stesso partito al Governo (il PD) in
quindici anni ha dato vita a due opposte riforme del titolo V della
Costituzione, oscillando tra una confusa
esigenza di forte autonomia (nel 2001) e una sconnessa uniformità statalista (nel 2016), ma il dramma consiste
che in entrambi i testi non c’è
chiarezza, omogeneità, coerenza e una giusta valorizzazione delle Autonomie
Locali; c’è una sostanziale rinuncia a costruire un regionalismo moderno e
dinamico; con il vizio ogni volta di rimettere
in gioco tutto … così si gioca allo sfascio!
Il
fatto stesso che con la riforma del 2016 si attui una sostanziale e consistente
modifica della riforma del 2001 (la riforma della riforma è una controriforma)
dovrebbe far riflettere sulla necessità di un progetto unitario e di norme scritte
bene, evitando confusione e approssimazioni che invece di semplificare o risolvere i problemi a loro volta
contribuiscono a peggiorare la situazione … incredibile!!!
La
riforma costituzionale 2016 riconfigura la ripartizione delle competenze tra
Stato e Regioni … a favore dello Stato,
di fatto ritornando indietro rispetto a quanto previsto nella riforma del 2001,
ma ritornare indietro significa immettere nell’attuale sistema istituzionale
(cioè dopo la riforma 2001) ulteriore confusione, nuove occasioni di contrasti tra Stato e Regioni, incertezza nel fare (fa lo Stato o fa la Regione?).
Con
la riforma 2016 si aumentano le
competenze esclusive dello Stato, ad esempio il coordinamento della finanza
pubblica e di alcune politiche (del lavoro, della promozione della concorrenza
e della disciplina dell’ambiente e delle infrastrutture strategiche), sulla
base di un comune denominatore: l’esigenza dell’uniformità di regolazione su tutto il territorio nazionale ai fini
del superamento delle aumentate diversità territoriali e delle relative costanti
debolezze strutturali. Inoltre, viene soppressa la competenza legislativa “concorrente” attualmente ripartita tra
Stato e Regioni (considerando i notevoli problemi interpretativi che essa ha ingenerato
dopo l’entrata in vigore della riforma del 2001), soprattutto con riferimento
al rapporto vario e mutevole fra principi
fondamentali e disciplina di dettaglio nelle singole materie legislative.
Resta
ferma la “clausola di residualità” che attribuisce alle Regioni la
competenza legislativa in materie non riservate alla competenza esclusiva dello
Stato indicate in via esemplificativa. Altra novità è costituita dalla
possibilità che la legge dello Stato, a tutela dell’unità giuridica o economica
della Repubblica o dell’interesse nazionale (cd. “clausola di salvaguardia”),
intervenga anche in materie di competenza legislativa regionale. Inoltre,
esiste la possibilità di attribuire ulteriori forme di autonomia differenziate alle Regioni a statuto ordinario, nel cui
bilancio vi sia equilibrio tra entrate e spese.
Questa
inversione “neocentralista” non è rispettosa dello spirito della Costituzione
(art. 5: “La Repubblica, una e
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che
dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i
principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del
decentramento”), poiché è volta a ripristinare un assetto statocentrico
ancor più netto di quello anteriore alla riforma del 2001, attraverso:
a) un
netto ridimensionamento complessivo
del ruolo legislativo regionale;
b) un notevole ampliamento dell’elenco delle materie di legislazione esclusiva
statale (enunciate oltretutto in prevalenza senza alcuna limitazione ai soli
principi o alle norme generali);
c) la clausola della previsione di disposizioni «generali e comuni» statali
in una serie di materie di competenza regionale (quali il governo del
territorio, la tutela della salute, la sicurezza degli alimenti, le attività
culturali, il turismo, l’istruzione, la tutela e la sicurezza del lavoro);
d)
la clausola di intervento della legge statale in materie regionali a tutela dell’unità giuridica o economica o
dell’interesse nazionale.
Emerge,
poi, una inspiegabile ulteriore divaricazione (doppio binario) tra le due categorie di Regioni: quelle ordinarie escono
fortemente ridimensionate nelle competenze, mentre quelle speciali non vengono
per nulla messe in discussione, mantenendo oltre a maggiori competenze
legislative e amministrative, anche maggiori risorse finanziarie e trattamenti
più favorevoli.
Ora
ha senso far nascere un regionalismo
eccezionalmente asimmetrico? Quale coerenza avrà la produzione legislativa
italiana se da una lato deve tener conto della competenza esclusiva dello Stato
(per le Regioni Ordinarie), dall’altra deve rispettare le competenze delle
Regioni Speciali?
Appare
evidente che questa differenziazione costituisca un esempio abbastanza vistoso
di un eccesso di confusione,
mitigato dall’impegno ad una futura revisione degli Statuti speciali previa
intesa con la regione interessata (ma
sarà possibile?).
Il
disegno di (apparente) semplificazione del sistema degli enti territoriali
locali porta, da una parte, alla soppressione
delle Province dall’elenco delle istituzioni costitutive della Repubblica,
ma dall’altra, si prevedono già nuovi (e
non meglio definiti) enti di area vasta, con organi di derivazione
comunale, il cui ordinamento dovrà essere oggetto sia di norme statali che regionali
(processo di decostituzionalizzazione e accentramento a livello Regionale). Ma ha
un senso questo tipo di semplificazione?
Un
ulteriore elemento di non marginale perplessità riguarda la scelta di limitare fortemente l’autonomia normativa e
organizzativa delle istituzioni locali, essendo sancito nella riforma un
generale potere esclusivo statale di ordinamento dei comuni e delle città
metropolitane (fine dello spazio di autoordinamento statutario e regolamentare
degli enti locali); un inspiegabile forte ridimensionamento dell’autonomia
locale del tutto subordinata al (generale) potere
di ordinamento statale.
Con
la riforma 2016 quasi tutto deve essere
fatto dallo Stato (competenza esclusiva su tutela della salute, politiche
sociali, sicurezza alimentare, istruzione e formazione professionale, attività
culturali, turismo, governo del territorio).
Per
esempio, cosa vuol dire politiche sociali in cui lo Stato ha competenza
esclusiva nel fissare le norme generali e comuni? Chi determina ciò che non è
nelle “norme generali e comuni”? Ma dove sta il confine? Chi è che fissa il
confine tra nazionale e regionale? Allora qui si gioca lo spazio legislativo
della Regione, premessa per rendere del
tutto precarie le competenze delle Regioni con il rischio di dar vita ad un
nuovo eccesso di conflittualità e di
incertezza delle situazioni sostanziali gestite.
Un
altro esempio; una nuova legge sulla sanità o sull’assistenza sociale (fatto
rilevante di tutela dei diritti soggettivi) la fa lo Stato con una legislazione
monocamerale o bicamerale o la fanno le Regioni? E se la legge la fa il
Parlamento alle Regioni cosa resta da fare? Attenzione … su uno zoccolo di interessi molto vasto avremo una situazione di enorme
confusione.
Alle
Regioni rimangono poche cose, alcune anche vuote; per esempio, alle Regioni
viene attribuita la potestà legislativa in materia di “rappresentanza delle minoranze linguistiche”, ma è una norma a contenuto vuoto perché cosa
vuol dire la rappresentanza delle minoranze linguistiche? Dove e come si tutela
“la rappresentanza” di queste
minoranze???
Altri
esempi; in tema di pianificazione del territorio o di mobilità la Regione può intervenire,
ma nel rispetto delle leggi statali in materia di porti, aeroporti, reti di
trasporto e di navigazione. In tema di tutela e valorizzazione dei beni
culturali e paesaggistici alla Regione rimangono le competenze di mera attuazione e di mera integrazione della legislazione
statale. Sui parchi regionali la Regione attuerà
puntualmente ciò che gli viene detto da parte dei funzionari periferici
dello Stato che tutelano questo interesse. Sulla viabilità le Regioni gestiranno in via amministrativa quello
che prima gestivano le Province. Quindi si assiste a una sorta di degrado dei poteri regionali verso un
livello di amministrazione o di potestà legislativa meramente integrativa e facoltativa
che si innesta su una attuale “super produzione” di norme regionali … con il
rischio di confusione e di gravi problemi in prospettiva.
Insomma
… è una riforma fatta male e confusa; ma qualunque valutazione si voglia fare
(se aumenti oppure no il contenzioso, se sia utile perché riduce il potere
eccessivo delle Regioni, se sia dannosa perché riproduce un modello fortemente
statalista) si tratta comunque di
un’ennesima occasione persa di ripensare un modello di regionalismo che
esuli dalle logiche o di un “pluralismo anarchico” attuale o di deriva neocentralista futura.
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