domenica 22 maggio 2016

(CONTRO)RIFORMA COSTITUZIONALE: IL RIDIMENSIONAMENTO DELLE AUTONOMIE LOCALI E UNA DERIVA NEOCENTRALISTA (terza parte)

La riforma Costituzionale 2016 prevede, da una parte, l’istituzione di un Senato che “rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”; dall’altra, procede ad una nuova modifica del Titolo V della Costituzione (articoli dal 114 al 133), cioè di quella parte della Costituzione dedicata a “le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni” definiti “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”; l’insieme di questi due punti farebbe pensare a una omogenea riforma del regionalismo, ma non è vero … cerchiamo di ragionarci sopra per dimostrarlo con opportune argomentazioni.

Intanto occorre evidenziare che ora viene “riformata” la riforma costituzionale del 2001 (quella voluta dall’Ulivo di Veltroni-Rutelli sotto il Governo Amato), allora definita come “la più grande riforma costituzionale finora approvata dall’entrata in vigore della Costituzione”, ma che in realtà si è poi manifestata (e l’attuale riforma lo dimostra) come una iniziativa affrettata (approvata sul finire della XIII legislatura, da una maggioranza parlamentare di appena quattro voti), superficiale (varata per contenere il consenso a favore della Lega Nord), scritta male (scimmiottava il federalismo leghista, ma fece sparire ogni verifica sulle spese delle regioni, trasferendovi molte competenze), che in questi soli 15 anni ha dato vita sia ad una forte espansione della spesa regionale che ad una consistente produzione di contrasti presso la Corte Costituzionale.
Lo stesso partito al Governo (il PD) in quindici anni ha dato vita a due opposte riforme del titolo V della Costituzione, oscillando tra una confusa esigenza di forte autonomia (nel 2001) e una sconnessa uniformità statalista (nel 2016), ma il dramma consiste che in entrambi i testi non c’è chiarezza, omogeneità, coerenza e una giusta valorizzazione delle Autonomie Locali; c’è una sostanziale rinuncia a costruire un regionalismo moderno e dinamico; con il vizio ogni volta di rimettere in gioco tutto … così si gioca allo sfascio!
Il fatto stesso che con la riforma del 2016 si attui una sostanziale e consistente modifica della riforma del 2001 (la riforma della riforma è una controriforma) dovrebbe far riflettere sulla necessità di un progetto unitario e di norme scritte bene, evitando confusione e approssimazioni che invece di semplificare o risolvere i problemi a loro volta contribuiscono a peggiorare la situazione … incredibile!!!
La riforma costituzionale 2016 riconfigura la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni … a favore dello Stato, di fatto ritornando indietro rispetto a quanto previsto nella riforma del 2001, ma ritornare indietro significa immettere nell’attuale sistema istituzionale (cioè dopo la riforma 2001) ulteriore confusione, nuove occasioni di contrasti tra Stato e Regioni, incertezza nel fare (fa lo Stato o fa la Regione?).
Con la riforma 2016 si aumentano le competenze esclusive dello Stato, ad esempio il coordinamento della finanza pubblica e di alcune politiche (del lavoro, della promozione della concorrenza e della disciplina dell’ambiente e delle infrastrutture strategiche), sulla base di un comune denominatore: l’esigenza dell’uniformità di regolazione su tutto il territorio nazionale ai fini del superamento delle aumentate diversità territoriali e delle relative costanti debolezze strutturali. Inoltre, viene soppressa la competenza legislativa “concorrente” attualmente ripartita tra Stato e Regioni (considerando i notevoli problemi interpretativi che essa ha ingenerato dopo l’entrata in vigore della riforma del 2001), soprattutto con riferimento al rapporto vario e mutevole fra principi fondamentali e disciplina di dettaglio nelle singole materie legislative.
Resta ferma la “clausola di residualità” che attribuisce alle Regioni la competenza legislativa in materie non riservate alla competenza esclusiva dello Stato indicate in via esemplificativa. Altra novità è costituita dalla possibilità che la legge dello Stato, a tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o dell’interesse nazionale (cd. “clausola di salvaguardia”), intervenga anche in materie di competenza legislativa regionale. Inoltre, esiste la possibilità di attribuire ulteriori forme di autonomia differenziate alle Regioni a statuto ordinario, nel cui bilancio vi sia equilibrio tra entrate e spese.
Questa inversione “neocentralista” non è rispettosa dello spirito della Costituzione (art. 5: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”), poiché è volta a ripristinare un assetto statocentrico ancor più netto di quello anteriore alla riforma del 2001, attraverso:
a) un netto ridimensionamento complessivo del ruolo legislativo regionale;
b) un notevole ampliamento dell’elenco delle materie di legislazione esclusiva statale (enunciate oltretutto in prevalenza senza alcuna limitazione ai soli principi o alle norme generali);
c) la clausola della previsione di disposizioni «generali e comuni» statali in una serie di materie di competenza regionale (quali il governo del territorio, la tutela della salute, la sicurezza degli alimenti, le attività culturali, il turismo, l’istruzione, la tutela e la sicurezza del lavoro);
d) la clausola di intervento della legge statale in materie regionali a tutela dell’unità giuridica o economica o dell’interesse nazionale.
Emerge, poi, una inspiegabile ulteriore divaricazione (doppio binario) tra le due categorie di Regioni: quelle ordinarie escono fortemente ridimensionate nelle competenze, mentre quelle speciali non vengono per nulla messe in discussione, mantenendo oltre a maggiori competenze legislative e amministrative, anche maggiori risorse finanziarie e trattamenti più favorevoli.
Ora ha senso far nascere un regionalismo eccezionalmente asimmetrico? Quale coerenza avrà la produzione legislativa italiana se da una lato deve tener conto della competenza esclusiva dello Stato (per le Regioni Ordinarie), dall’altra deve rispettare le competenze delle Regioni Speciali?
Appare evidente che questa differenziazione costituisca un esempio abbastanza vistoso di un eccesso di confusione, mitigato dall’impegno ad una futura revisione degli Statuti speciali previa intesa con la regione interessata (ma sarà possibile?).
Il disegno di (apparente) semplificazione del sistema degli enti territoriali locali porta, da una parte, alla soppressione delle Province dall’elenco delle istituzioni costitutive della Repubblica, ma dall’altra, si prevedono già nuovi (e non meglio definiti) enti di area vasta, con organi di derivazione comunale, il cui ordinamento dovrà essere oggetto sia di norme statali che regionali (processo di decostituzionalizzazione e accentramento a livello Regionale). Ma ha un senso questo tipo di semplificazione?
Un ulteriore elemento di non marginale perplessità riguarda la scelta di limitare fortemente l’autonomia normativa e organizzativa delle istituzioni locali, essendo sancito nella riforma un generale potere esclusivo statale di ordinamento dei comuni e delle città metropolitane (fine dello spazio di autoordinamento statutario e regolamentare degli enti locali); un inspiegabile forte ridimensionamento dell’autonomia locale del tutto subordinata al (generale) potere di ordinamento statale.
Con la riforma 2016 quasi tutto deve essere fatto dallo Stato (competenza esclusiva su tutela della salute, politiche sociali, sicurezza alimentare, istruzione e formazione professionale, attività culturali, turismo, governo del territorio).
Per esempio, cosa vuol dire politiche sociali in cui lo Stato ha competenza esclusiva nel fissare le norme generali e comuni? Chi determina ciò che non è nelle “norme generali e comuni”? Ma dove sta il confine? Chi è che fissa il confine tra nazionale e regionale? Allora qui si gioca lo spazio legislativo della Regione, premessa per rendere del tutto precarie le competenze delle Regioni con il rischio di dar vita ad un nuovo eccesso di conflittualità e di incertezza delle situazioni sostanziali gestite.
Un altro esempio; una nuova legge sulla sanità o sull’assistenza sociale (fatto rilevante di tutela dei diritti soggettivi) la fa lo Stato con una legislazione monocamerale o bicamerale o la fanno le Regioni? E se la legge la fa il Parlamento alle Regioni cosa resta da fare? Attenzione … su uno zoccolo di interessi molto vasto avremo una situazione di enorme confusione.
Alle Regioni rimangono poche cose, alcune anche vuote; per esempio, alle Regioni viene attribuita la potestà legislativa in materia di “rappresentanza delle minoranze linguistiche”, ma è una norma a contenuto vuoto perché cosa vuol dire la rappresentanza delle minoranze linguistiche? Dove e come si tutela “la rappresentanza” di queste minoranze???
Altri esempi; in tema di pianificazione del territorio o di mobilità la Regione può intervenire, ma nel rispetto delle leggi statali in materia di porti, aeroporti, reti di trasporto e di navigazione. In tema di tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici alla Regione rimangono le competenze di mera attuazione e di mera integrazione della legislazione statale. Sui parchi regionali la Regione attuerà puntualmente ciò che gli viene detto da parte dei funzionari periferici dello Stato che tutelano questo interesse. Sulla viabilità le Regioni gestiranno in via amministrativa quello che prima gestivano le Province. Quindi si assiste a una sorta di degrado dei poteri regionali verso un livello di amministrazione o di potestà legislativa meramente integrativa e facoltativa che si innesta su una attuale “super produzione” di norme regionali … con il rischio di confusione e di gravi problemi in prospettiva.
Insomma … è una riforma fatta male e confusa; ma qualunque valutazione si voglia fare (se aumenti oppure no il contenzioso, se sia utile perché riduce il potere eccessivo delle Regioni, se sia dannosa perché riproduce un modello fortemente statalista) si tratta comunque di un’ennesima occasione persa di ripensare un modello di regionalismo che esuli dalle logiche o di un “pluralismo anarchico” attuale o di deriva neocentralista futura.

Euro Mazzi

Nessun commento:

Posta un commento