Nella
Relazione datata 8/4/2014 al disegno di legge costituzionale (Atto Senato n.
1429, presentato da Renzi/Boschi), nella parte relativa alle linee d’indirizzo
del progetto di riforma è indicata una delle ragioni di fondo del provvedimento:
“rafforzare
l’efficienza dei processi decisionali e di attuazione delle politiche
pubbliche nelle quali si sostanzia l’indirizzo politico, al fine di favorire la
stabilità dell’azione di governo e
quella rapidità e incisività delle
decisioni che costituiscono la premessa indispensabile per agire con
successo nel contesto della competizione globale”.
Le
ragioni di fondo della riforma costituzionale Renzi/Boschi si ritrovano
nell’esigenza di “governabilità”,
che diventa, dunque, un valore primario indispensabile tanto da provocare una
riforma (appunto) della Costituzione per superare la “cronica debolezza degli
esecutivi nell’attuazione del programma di governo, la lentezza e la
farraginosità dei procedimenti legislativi”.
I
proponenti sono convinti che le disfunzioni decisionali siano il frutto dell’impianto
istituzionale (… e non invece delle difficoltà del sistema politico-partitico)
e che, dunque, su di esso si debba incidere per assicurare un’efficienza decisionale, ma di fatto viene favorita la
governabilità legata solo al Governo.
Vengono,
quindi, esclusi provvedimenti più ampi sull’insieme dei poteri pubblici, poiché
generalmente la “governabilità”
dovrebbe essere legato all’esistenza di un complesso di condizioni sociali, economiche
e politiche, tali da rendere possibile il normale governo di un Paese.
Inoltre,
non è stato tenuto conto che nell’attuale Costituzione il Governo dispone già
di molti strumenti utili all’attuazione del proprio indirizzo politico (per
esempio: attraverso il ricorso al decreto-legge, al decreto legislativo, c.d.
decreti mille-proroghe, all’abuso della legislazione delegata, ecc.); anzi l’esperienza
ha progressivamente dimostrato come la tendenza
del Governo a svolgere un ruolo propulsivo nella produzione normativa abbia
determinato uno stravolgimento del principio della competenza parlamentare
all’esercizio della funzione legislativa senza sostanziale controllo e contrasto.
Frequenti sono stati i casi in cui il Governo ha ridotto la legge di
conversione di propri decreti a un maxi-emendamento
sul quale è stata posta la questione di fiducia, limitando la dialettica
parlamentare e impoverendo la qualità della produzione normativa. Per esempio,
nella XVII Legislatura i disegni di
legge di iniziativa governativa sono negli anni 2013-2016 mediamente superiori al 70% dei progetti deliberati
dalla Camera (vedere tabella a margine).
Questa
preminenza sul piano “legislativo” del
Governo sul Parlamento è già nei fatti e ha ridotto le garanzie di
pubblicità proprie del procedimento parlamentare, con una duplice conseguenza: a)
il prevalere degli apparati legislativi
dei ministeri rispetto alla dialettica parlamentare; b) spesso i testi di legge sono diventati non
comprensibili, in quanto oggetto di successive e spesso caotiche aggiunte e
modifiche in assenza di un chiaro coordinamento formale.
Comunque,
con la riforma Renzi/Boschi di fatto si
rafforza ulteriormente il Governo rispetto al Parlamento, proseguendo
nella progressiva marginalizzazione di quest’ultimo dai circuiti decisionali,
nei quali il Governo ha da tempo preso il sopravvento senza adeguati
bilanciamenti. Non è certo un caso se l’iniziativa
di revisione costituzionale sia di origine governativa e non parlamentare.
In
particolare, due aspetti della riforma costituzionale (e dal loro intreccio) sanciscono
un sostanziale rafforzamento del Governo a detrimento del Parlamento: 1) il
c.d. procedimento a data certa (art. 72 della Cost.); 2) la nuova disciplina
del decreto-legge (art. 77 Cost.).
Anche
altre norme raggiungono indirettamente tale risultato:
a)
la riforma del bicameralismo paritario,
incentrata – per quel che qui rileva – sulla eliminazione della elezione
diretta dei senatori e sulla conseguente attribuzione dell’indirizzo politico e
del rapporto fiduciario alla sola Camera dei Deputati.
b)
la riforma del titolo V che prevede
un nuovo accentramento di competenze sullo Stato rispetto a quanto la riforma
costituzionale del 2001 aveva assegnato alle Regioni.
A
fronte della conferma di un’ampia libertà di manovra affidata al Governo, la
riforma Renzi/Boschi introduce, invece, una disciplina del procedimento di
formazione della legge particolarmente
farraginosa: quattro diversi procedimenti legislativi (bicamerale
paritario; monocamerale; monocamerale rinforzato per le leggi approvate in
forza della clausola di supremazia; di approvazione dei disegni di legge); ma
ad essi si aggiungono quelli previsti da altre disposizioni, per un totale di
nove distinti procedimenti legislativi. È facile immaginare come una tale
frammentazione produrrà un intreccio normativo
di difficile soluzione. La situazione risulta aggravata dal ricorso alla
tecnica del riparto per materie onde individuare le ipotesi in cui nel
procedimento legislativo può intervenire il Senato. Questi nove procedimenti legislativi in un’ottica efficientistica rappresentano
un appesantimento e un aggravamento, piuttosto che una semplificazione, con
un fortissimo rischio di aumento del contenzioso.
Questa
apparente contraddizione esalterà proprio il Governo nella sua variante “decisionistica” (la “democrazia
immediata o decidente”), rispetto ad un Parlamento bloccato («populisticamente»)
in una perenne discussione sulle leggi …
che verrà facilmente definita come una perdita di tempo.
Questo
“decisionismo” governativo che riesce a “piegare” il Parlamento
rispetto alla sollecita realizzazione di obiettivi e disegni di riforma
definiti in altre sedi (Unione Europea, il mercato, la “tecnica”, ecc.) è
appunto ciò che più è ritenuto utile a queste istanze, le quali non essendo
elette democraticamente non rispondono e non sono responsabili verso i loro
elettori.
Ecco
perché J.P.Morgan, Fitch, Confindustria, Fondo Monetario e Unione Europea fanno
il “tifo” per la vittoria del SI al referendum costituzionale, poiché sono per Governi forti e decidenti, mentre
banalizzano “la democrazia parlamentare” nella sua versione fatta di “inciuci”,
lunghe e sterili discussioni, bloccata da veti incrociati, ecc..
Del
resto, oramai l’indirizzo politico sul piano economico-finanziario perviene al
di fuori del rapporto Governo-Parlamento (per esempio: parametri di Maastricht,
Patto di stabilità e di crescita, Fiscal Compact, Meccanismo europeo di
stabilità, ecc.), per cui la
governabilità che si vorrebbe garantita mediante questa riforma costituzionale sembra
essere piuttosto lo strumento per dare esecuzione e forma, sul piano interno, a
indirizzi decisi a livello sovranazionale riducendo il Parlamento a una mera
deresponsabilizzata esecuzione.
In
queste condizioni il ruolo politico del
Parlamento si riduce a una attività recettizio-normativa vincolata, essendo,
infatti, sempre più condizionato per esempio da un indirizzo politico europeo
prefissato nei Trattati; conseguentemente gli interessi politici nazionali
finiscono per essere mera traduzione delle politiche imposte dalle varie istituzioni
della globalizzazione.
Tuttavia,
questo tipo di “governabilità”
rischia paradossalmente di produrre una maggiore ingovernabilità sul piano sociale, perché l’esito finale sarà quello
di un Governo ulteriormente “sordo e lontano” rispetto alle istanze sociali. E allora,
se il momento democratico rimarrà solo quello del voto e la partecipazione
politica diventa mera partecipazione elettorale, alle masse poi rimarrà solo la protesta nelle sue varie
declinazioni … anche violente.
Le
considerazioni sopra esposte sono ulteriori motivazioni che spingono a rifiutare la riforma costituzionale
Renzi/Boschi che assicura una maggiore stabilità della funzione di Governo, ma a
discapito dell’equilibrio democratico.
Il
NO deve anche evitare che un referendum costituzionale diventi strumento per la legittimazione
personalistica del Presidente del Consiglio, in un abbraccio plebiscitario
di gaulliana memoria tra il leader politico-Capo del Governo e il corpo
elettorale.
Ma
il NO deve anche riaffermare la
necessità che una costituzione democratica imponga la legittimazione dal basso (dal popolo), la responsabilità e la controllabilità del
potere; il rispetto, la cura e la dignità nei confronti della vita politica
e degli atti in cui si manifesta.
E’
una sfida fondamentale … e va giocata fino in fondo …
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