giovedì 7 luglio 2016

PANICO DA REFERENDUM: LA GOVERNABILITÀ RICHIESTA DAI POTERI ESTERNI … (seconda parte)

Nella Relazione datata 8/4/2014 al disegno di legge costituzionale (Atto Senato n. 1429, presentato da Renzi/Boschi), nella parte relativa alle linee d’indirizzo del progetto di riforma è indicata una delle ragioni di fondo del provvedimento: rafforzare l’efficienza dei processi decisionali e di attuazione delle politiche pubbliche nelle quali si sostanzia l’indirizzo politico, al fine di favorire la stabilità dell’azione di governo e quella rapidità e incisività delle decisioni che costituiscono la premessa indispensabile per agire con successo nel contesto della competizione globale”.
Le ragioni di fondo della riforma costituzionale Renzi/Boschi si ritrovano nell’esigenza di “governabilità”, che diventa, dunque, un valore primario indispensabile tanto da provocare una riforma (appunto) della Costituzione per superare la cronica debolezza degli esecutivi nell’attuazione del programma di governo, la lentezza e la farraginosità dei procedimenti legislativi”.

I proponenti sono convinti che le disfunzioni decisionali siano il frutto dell’impianto istituzionale (… e non invece delle difficoltà del sistema politico-partitico) e che, dunque, su di esso si debba incidere per assicurare un’efficienza decisionale, ma di fatto viene favorita la governabilità legata solo al Governo.
Vengono, quindi, esclusi provvedimenti più ampi sull’insieme dei poteri pubblici, poiché generalmente la “governabilità” dovrebbe essere legato all’esistenza di un complesso di condizioni sociali, economiche e politiche, tali da rendere possibile il normale governo di un Paese.
Inoltre, non è stato tenuto conto che nell’attuale Costituzione il Governo dispone già di molti strumenti utili all’attuazione del proprio indirizzo politico (per esempio: attraverso il ricorso al decreto-legge, al decreto legislativo, c.d. decreti mille-proroghe, all’abuso della legislazione delegata, ecc.); anzi l’esperienza ha progressivamente dimostrato come la tendenza del Governo a svolgere un ruolo propulsivo nella produzione normativa abbia determinato uno stravolgimento del principio della competenza parlamentare all’esercizio della funzione legislativa senza sostanziale controllo e contrasto. Frequenti sono stati i casi in cui il Governo ha ridotto la legge di conversione di propri decreti a un maxi-emendamento sul quale è stata posta la questione di fiducia, limitando la dialettica parlamentare e impoverendo la qualità della produzione normativa. Per esempio, nella XVII Legislatura i disegni di legge di iniziativa governativa sono negli anni 2013-2016 mediamente superiori al 70% dei progetti deliberati dalla Camera (vedere tabella a margine).
Questa preminenza sul piano “legislativo” del Governo sul Parlamento è già nei fatti e ha ridotto le garanzie di pubblicità proprie del procedimento parlamentare, con una duplice conseguenza: a) il prevalere degli apparati legislativi dei ministeri rispetto alla dialettica parlamentare; b) spesso i testi di legge sono diventati non comprensibili, in quanto oggetto di successive e spesso caotiche aggiunte e modifiche in assenza di un chiaro coordinamento formale.
Comunque, con la riforma Renzi/Boschi di fatto si rafforza ulteriormente il Governo rispetto al Parlamento, proseguendo nella progressiva marginalizzazione di quest’ultimo dai circuiti decisionali, nei quali il Governo ha da tempo preso il sopravvento senza adeguati bilanciamenti. Non è certo un caso se l’iniziativa di revisione costituzionale sia di origine governativa e non parlamentare.
In particolare, due aspetti della riforma costituzionale (e dal loro intreccio) sanciscono un sostanziale rafforzamento del Governo a detrimento del Parlamento: 1) il c.d. procedimento a data certa (art. 72 della Cost.); 2) la nuova disciplina del decreto-legge (art. 77 Cost.).
Anche altre norme raggiungono indirettamente tale risultato:
a) la riforma del bicameralismo paritario, incentrata – per quel che qui rileva – sulla eliminazione della elezione diretta dei senatori e sulla conseguente attribuzione dell’indirizzo politico e del rapporto fiduciario alla sola Camera dei Deputati.
b) la riforma del titolo V che prevede un nuovo accentramento di competenze sullo Stato rispetto a quanto la riforma costituzionale del 2001 aveva assegnato alle Regioni.
A fronte della conferma di un’ampia libertà di manovra affidata al Governo, la riforma Renzi/Boschi introduce, invece, una disciplina del procedimento di formazione della legge particolarmente farraginosa: quattro diversi procedimenti legislativi (bicamerale paritario; monocamerale; monocamerale rinforzato per le leggi approvate in forza della clausola di supremazia; di approvazione dei disegni di legge); ma ad essi si aggiungono quelli previsti da altre disposizioni, per un totale di nove distinti procedimenti legislativi. È facile immaginare come una tale frammentazione produrrà un intreccio normativo di difficile soluzione. La situazione risulta aggravata dal ricorso alla tecnica del riparto per materie onde individuare le ipotesi in cui nel procedimento legislativo può intervenire il Senato. Questi nove procedimenti legislativi in un’ottica efficientistica rappresentano un appesantimento e un aggravamento, piuttosto che una semplificazione, con un fortissimo rischio di aumento del contenzioso.
Questa apparente contraddizione esalterà proprio il Governo nella sua variante “decisionistica” (la “democrazia immediata o decidente”), rispetto ad un Parlamento bloccato («populisticamente») in una perenne discussione sulle leggi … che verrà facilmente definita come una perdita di tempo.
Questo “decisionismo” governativo che riesce a “piegare” il Parlamento rispetto alla sollecita realizzazione di obiettivi e disegni di riforma definiti in altre sedi (Unione Europea, il mercato, la “tecnica”, ecc.) è appunto ciò che più è ritenuto utile a queste istanze, le quali non essendo elette democraticamente non rispondono e non sono responsabili verso i loro elettori.
Ecco perché J.P.Morgan, Fitch, Confindustria, Fondo Monetario e Unione Europea fanno il “tifo” per la vittoria del SI al referendum costituzionale, poiché sono per Governi forti e decidenti, mentre banalizzano “la democrazia parlamentare” nella sua versione fatta di “inciuci”, lunghe e sterili discussioni, bloccata da veti incrociati, ecc..
Del resto, oramai l’indirizzo politico sul piano economico-finanziario perviene al di fuori del rapporto Governo-Parlamento (per esempio: parametri di Maastricht, Patto di stabilità e di crescita, Fiscal Compact, Meccanismo europeo di stabilità, ecc.), per cui la governabilità che si vorrebbe garantita mediante questa riforma costituzionale sembra essere piuttosto lo strumento per dare esecuzione e forma, sul piano interno, a indirizzi decisi a livello sovranazionale riducendo il Parlamento a una mera deresponsabilizzata esecuzione.
In queste condizioni il ruolo politico del Parlamento si riduce a una attività recettizio-normativa vincolata, essendo, infatti, sempre più condizionato per esempio da un indirizzo politico europeo prefissato nei Trattati; conseguentemente gli interessi politici nazionali finiscono per essere mera traduzione delle politiche imposte dalle varie istituzioni della globalizzazione.
Tuttavia, questo tipo di “governabilità” rischia paradossalmente di produrre una maggiore ingovernabilità sul piano sociale, perché l’esito finale sarà quello di un Governo ulteriormente “sordo e lontano” rispetto alle istanze sociali. E allora, se il momento democratico rimarrà solo quello del voto e la partecipazione politica diventa mera partecipazione elettorale, alle masse poi rimarrà solo la protesta nelle sue varie declinazioni … anche violente.
Le considerazioni sopra esposte sono ulteriori motivazioni che spingono a rifiutare la riforma costituzionale Renzi/Boschi che assicura una maggiore stabilità della funzione di Governo, ma a discapito dell’equilibrio democratico.
Il NO deve anche evitare che un referendum costituzionale diventi strumento per la legittimazione personalistica del Presidente del Consiglio, in un abbraccio plebiscitario di gaulliana memoria tra il leader politico-Capo del Governo e il corpo elettorale.
Ma il NO deve anche riaffermare la necessità che una costituzione democratica imponga la legittimazione dal basso (dal popolo), la responsabilità e la controllabilità del potere; il rispetto, la cura e la dignità nei confronti della vita politica e degli atti in cui si manifesta.
E’ una sfida fondamentale … e va giocata fino in fondo …

Euro Mazzi

 

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